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In questo numero

A Ghost Story

sabato 4 Novembre, 2017 | di Filippo Zoratti
A Ghost Story
Viennale
2
Voto autore:

55. Viennale – Vienna International Film Festival, 19 ottobre – 2 novembre 2017, Vienna

Assenza, identità, ricordo
Si può prendere sul serio un film in cui il protagonista, a seguito di un incidente stradale mortale, ritorna come fantasma munito di lenzuolo con buchi per gli occhi? Prima di iniziare la visione di A Ghost Story – che difficilmente avrà una distribuzione italiana, mentre dopo la presentazione al Sundance 2017 continua il suo giro festivaliero e incassa più di quanto previsto in America – occorre rispondere a questa fondamentale domanda.

Le regole del gioco imposte dal regista David Lowery (una carriera da autore, montatore e direttore della fotografia suddivisa fra cinema indipendente e produzioni Disney) sono essenzialmente due: la totale sospensione dell’incredulità nei confronti della storia raccontata e un’idea di arte che pone molte domande senza necessariamente poi fornire pedissequamente tutte le risposte.mediacritica_a_ghost_story_290 In questi mesi A Ghost Story è stato avvicinato a molto altro cinema – da Terrence Malick ad Alejandro Amenabar, passando per Apichatpong Weerasethakul – e interpretato in svariate maniere (elaborazione del lutto? Metafora dei fantasmi di una nazione? Film romantico simil-Ghost?), vista la sua pressoché totale assenza di coordinate univoche. Potrebbero forse correre in nostro aiuto la frase tratta da Virginia Woolf posta ad inizio pellicola (“Whatever hour you woke there was a door shutting”) e il monologo centrale affidato a Will Oldham, intriso di disperazione/fatalismo apocalittico e incentrato sulla ciclicità/reiterazione dell’universo; ma anche mancando questi due apparenti fulcri ci troveremmo comunque di fronte ad un prodotto ipnotico privo di confini narrativi (in paradossale contrasto con l’espediente tecnico del 4:3 ad angoli smussati) che flirta con i cliché del genere horror chiedendoci al contempo di guardare oltre, molto oltre. Verso il piano sequenza di Rooney Mara che fagocita una torta salata in preda alla disperazione, verso l’espressiva inespressività di Casey Affleck che attraverso i buchi del lenzuolo osserva la vita della sua compagna che inevitabilmente procede e si rinnova, verso un futuro industriale alla Blade Runner e un passato coloniale alla The Witch. Fra l’atto del guardare e quello dell’attendere – resi attraverso stacchi di montaggio e brusche ellissi – c’è un film che riesce (complici la fotografia desaturata di Andrew Droz Palermo e le musiche evocative di Daniel Hart) a dare forma e sostanza ad un concetto non rappresentabile: l’assenza. Un’assenza dolorosa e straziante (per chi resta e per chi non c’è più), che svilisce i ricordi e sfuma il senso della nostra identità. Forse è questo il significato ultimo di A Ghost Story, o forse no; forse è scritto nel bigliettino nascosto e misterioso lasciato nella casa da Rooney Mara, per dare pace a se stessa o all’anima in pena di Casey Affleck.

A Ghost Story [Id., USA 2017] REGIA David Lowery.
CAST Casey Affleck, Rooney Mara, Kesha, Will Oldham, Brea Grant.
SCENEGGIATURA David Lowery. FOTOGRAFIA Andrew Droz Palermo. MUSICHE Daniel Hart.
Drammatico/Fantastico, durata 92 minuti.

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