SPECIALE OSCAR 2018
“How come, chief Willoughby?”
Dopo l’ottima ricezione alla Mostra del Cinema di Venezia, Tre manifesti a Ebbing, Missouri torna in Italia, stavolta nel circuito delle sale cinematografiche e con la certezza, cementata dagli Oscar, dai Golden Globe e da svariati altri premi, di essere uno tra gli imperdibili di quest’anno.
È un film che tratta temi controversi e tenta di non dare risposte facili allo spettatore ma, paradossalmente, mette d’accordo tutti proprio grazie alla sua complessità: un po’ di realismo e un po’ di elementi di genere crime, un po’ tragico e un po’ comico, Tre manifesti a Ebbing, Missouri si destreggia perfettamente tra le sue numerose vocazioni e le intuizioni estemporanee. Non lo si può nemmeno accusare di furbizia o inconcludenza perché alla fine, dopo tutta la complessità che Martin McDonagh mette in scena, la morale del film appare piuttosto semplice e la si può sintetizzare senza timore di rovinare alcun colpo di scena: la spirale di violenza generata da un omicidio irrisolto non può andare avanti, bisogna prendersi la responsabilità di fermarla anche se la bilancia della giustizia non è sempre equa con tutti. L’omicidio in questione non è mostrato dal film che principia quando Mildred (Frances McDormand), la madre della vittima, affitta tre enormi spazi pubblicitari per puntare il dito contro lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) che a sette mesi dal delitto non ha ancora identificato alcun colpevole. La piccola comunità è scossa dalla provocazione e il delitto torna a essere argomento di discussione, molti però simpatizzano con le forze dell’ordine e con lo sceriffo, un uomo molto stimato che ha recentemente scoperto di avere un cancro incurabile. Alcuni poliziotti, come Willoughby, spiegano che l’atto dimostrativo non è utile alle indagini, altri, come Jason Dixon (Sam Rockwell), non accettano la provocazione e tentano fin da subito di chiudere la polemica ricorrendo agli abusi di potere. Il reparto attoriale è un grosso punto di forza del film che vanta l’Oscar alla Migliore Attrice Protagonista (Frances McDormand) e l’Oscar al Miglior Attore non Protagonista (Sam Rockwell) ma dire che Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film di attori significherebbe fare un torto alla sceneggiatura, scabrosa e ambigua al punto giusto, e all’efficace senso dell’umorismo di Martin McDonagh che conoscevamo per In Bruges, un film surreale e dall’ambientazione europea, eppure non del tutto alieno dalla sua ultima fatica.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri [Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, Gran Bretagna/USA 2017] REGIA Martin McDonagh.
CAST Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Peter Dinklage, Abbie Cornish.
SCENEGGIATURA Martin McDonagh. FOTOGRAFIA Ben Davis. MUSICHE Carter Burwell.
Drammatico/Poliziesco, durata 115 minuti.
ottimo ottimo film, monumentale Frances McDormand.
Ottimo film, ma non sono d’accordo sul fatto che “la morale del film appaia piuttosto semplice”. Personalmente, l’accusa di inconcludenza non sarebbe del tutto fuori luogo.
Mi sa che la morale non c’è nè, giustamente, vuole esserci
anche secondo me non si può dire che ci sia una “morale”, si può dire semmai che non si salva nessuno, che il finale è tutto tranne che risolutorio e anzi il colpevole dello stupro e omicidio rimane ignoto.
Maaa… non saremo mica di fronte ad un film leggermente sopravvalutato? Sarà mica questo sul serio il film dell’anno?
Argomentazioni please?
Le “sorprendenti” idee di regia sono tutte prese dai Coen (cosa che con tutta la buona volontà non si può negare dai). La lettera di metà film, i flashback e i colpi di scena sono narrativamente indice di un film (di una sceneggiatura?) che non sa come evolversi, come chiudersi. Ed è un problema costante in McDonagh, identico sia in In Bruges che in 7 psicopatici: arriva a metà dando credibilità e senso a tutto, poi sbrocca e si sfilaccia (può essere anche una scelta, ma non da “migliore film dell’anno”). I personaggi sono incoerenti, modificano di botto la propria personalità: vogliamo parlare dell’improvvisa redenzione di Dixon? Insensata, per un carattere che viene disegnato come una macchietta caricaturale per tre quarti d’opera. Insomma, è un film con dei problemi. Che peraltro mi è piaciuto, ma il punto è un altro. Ovvero decidere che sia la miglior cosa dell’anno per l’argomento di cui parla (fondamentale, necessario) bypassando il modo in cui lo fa (sbilenco).
Completamente d’accordo!
La redenzione la ottiene accompagnando la tipa a sparare allo stupratore. Non mi pare una roba tanto a caso come dici tu, per la Madonna!
…si ma cosa c’entra? Quella è la fine del film. Il poliziotto sciroccato – SPOILERRR – pesta fortissimo il tizio dei cartelloni, viene licenziato. E poi senza alcun nesso logico diventa buono. Ce la facessero capire questa redenzione, invece ci mostrano solo un dialogo sulla veranda con la madre, e tanto ci deve bastare.
Sono d’accordo anch’io con Kuba, Gooding!
Non diventa buono, semplicemente (come tutti i personaggi dell’intero film, e com’è il senso del film) in lui coesistono ideali nobili e sentimenti razzisti. Non c’è nessun passaggio da A a B. Infatti mica se lo riprendono nella polizia, perché non se lo riprendono? Perché comunque lui: il giorno dopo avrebbe preso a randellate sulla zucca un altro disgraziato.
Concordo con Te!
Anch’io mi trovo d’accordo e non ho visto nessun cambiamento repentino o redenzione. Dixon è un ignorante alcolista e impulsivo. È razzista perché frequenta solo razzisti. Non è “cattivo” e nulla prova che alla fine sia “diventato buono”… le contingenze lo hanno costretto a passare dal ruolo di oppressore a quello di vittima e ora sta solamente compiendo delle azioni che al momento gli sembrano giuste.
Trovo, comunque, impossibile che Dixon venga semplicemente licenziato dopo l’assalto all’agenzia pubblicitaria. Il fatto che non venga arrestato è una debolezza della sceneggiatura che ho trovato piuttosto grave.
concordo!