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In questo numero

Rinchiudersi dentro a un muro

sabato 24 Novembre, 2018 | di Eleonora Degrassi
Rinchiudersi dentro a un muro
Another brick in the wall
1

ANOTHER BRICK IN THE WALL
Il 14 settembre 2000: la prigionia ha inizio

9 novembre 1989, una data epocale: viene abbattuto il Muro di Berlino e l’immagine di una barriera che si sgretola e di quell’eroico esodo di “fratelli” che si riuniscono a chi era costretto ad abitare dall’altra parte rimarrà indelebile negli occhi di tutti. Un muro che cade come la più fragile delle costruzioni, che crolla portando con sé divisioni e differenze.

Quell’immagine è rimasta nell’immaginario collettivo, anche dei più piccoli, di chi ancora non sapeva ma presto avrebbe saputo e capito, di una portata talmente forte da essere annoverabile tra le istantanee simbolo del contemporaneo. Quel crollo ha significato e in un certo qual modo ha dato il via all’abbattimento di tante frontiere che hanno frammentato e separato il mondo, alla frantumazione di tutte quelle catene che per molto tempo hanno relegato l’uomo in un piccolo angolo da cui la visione era molto più ridotta. Da quel momento in poi l’essere umano ha capito, ancora di più e ancora meglio, di essere libero, un animale sociale che è tale proprio perché non costretto da muri, confini.mediacritica_grande_fratello_290
Il 14 settembre 2000 accade qualcosa di surreale, impensabile, paradossale. Mentre si parla di mondo, di globalizzazione, di umanità che si mescola un gruppo di 10 persone sceglie di entrare in una casa ed essere spiato da tutta Italia. Nel momento in cui schemi, barriere e arcaici modi di pensare si rompono e si lotta per i propri ideali, per chi è ghettizzato per genere, ceto, scolarità, per chi è rinchiuso dentro muri reali (le prigioni) e politici (come quello di Berlino appunto), c’è chi coscientemente si costruisce una gabbia e vi si barrica.
Ha inizio così il Grande Fratello, condotto nella prima edizione da Daria Bignardi e in seguito da Barbara D’Urso e Alessia Marcuzzi: uomini e donne qualunque, con un lavoro, una famiglia, una storia personale, decidono di asserragliarsi fra quattro mura, senza contatto con l’esterno, per un gioco al massacro della durata di 99 giorni. Tipi umani, la “gatta morta”, l’ignorante, il “vero uomo”, l’odioso – impossibile non citare Rocco Casalino, i cui trascorsi da “gieffino” come una valanga cadono sulla sua carriera di portavoce del presidente Conte –, vivono in uno spazio ristretto, in cui la realtà non è realtà, in cui i giorni sono orchestrati, manipolati e giostrati da un Big Brother spietato e crudele. Non è Oceania, lo stato totalitario del libro omonimo di Orwell, ma è altrettanto dittatoriale; ed è alquanto paradossale immaginare che “fuori” l’individuo butta giù anche a mani nude ciò che separa, ciò che divide, lottando per cibarsi voracemente di quell’aria che sa di nuove terre da visitare. Il Grande Fratello rappresenta un modello onnipervasivo e costante, una prigione immaginaria, sorveglia e punisce chi sbaglia, chi non si comporta come il voyeur desidererebbe; da quel 14 settembre la gatta morta diventa Marina, l’ignorante il pizzaiolo Salvo, il vero uomo Pietro Taricone, l’odioso Rocco Casalino. Non sono più tipi ma dei poveri cristi di cui si sa tutto, quegli sconosciuti diventano qualcuno che fa parte delle nostre vite, diventano a torto o a ragione divi, addirittura miti (finito quel Grande Fratello Taricone è stato protagonista di un Uno contro tutti di Maurizio Costanzo, sorte toccata a Marco Pannella e Carmelo Bene). Quel 2000 ha modificato il modo di fare tv, le sorti di molti ragazzi (Luca Argentero, Pietro Taricone). Di anno in anno orde di aspiranti gieffini ambiscono a rinchiudersi per non essere più uno dei tanti ma per essere Qualcuno, non uno con un’identità ma uno con un nome proprio; quelli del Grande Fratello infatti diventano Serena, Pasquale, persone che perdono il loro cognome per diventare un amico che viene osannato e poi messo da parte per lasciare spazio al prossimo.
Quella casa si fa sempre più grande, sempre più lussuosa ma non perde quell’aura tragica e paradossale di prigione dorata; non ci sono finestre, non ci sono porte (tranne quelle che non possono e non devono essere oltrepassate, pena l’esclusione dal gioco), c’è solo un misero giardinetto, con erba finta, da cui poter vedere un piccolo pezzo di cielo; sperano i “prigionieri”, presi in giro, spesso umiliati, ridicolizzati e messi alla gogna. È assurdo, c’è chi ambisce ad uscire da una situazione di oppressione, c’è chi invece vi entra per poter cambiare la propria vita, conscio o meno di essere vittima di un tristo spettacolo trash in cui l’uomo è un mero strumento.

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