Di primavere coreane
Per tanti cinefili della mia generazione la passione per il cinema estremorientale contemporaneo – qualcosa che andasse oltre la venerazione per i classici nipponici e le memorie dei gongfupian d’annata – è coincisa con la scoperta negli anni Novanta dei tesori “new wave” da Hong Kong e Taiwan. Quella fu la scintilla che produsse un incendio fatto di articoli, libri, rassegne, scambi carbonari ed esagerazioni giovanili. Certo, nel decennio precedente c’erano stati il lavoro pionieristico di Marco Müller, le retrospettive pesaresi, i numeri monografici dei Cahiers. Ma fu l’afflusso copioso di VHS e VCD dalle anime “periferiche” della Cina a infiammare l’immaginazione di tanti ragazzi in cerca di un cinema diverso, e le spericolate escursioni visionarie dei maestri hongkonghesi, quanto l’autorialità nuova eppure antica di Edward Yang, Hou Hsiao-hsien, e poi Tsai Ming-liang, sembravano proprio quel che ci voleva per evadere dagli orizzonti consolidati del mainstream popolare e festivaliero occidentale. A seguire arrivò la fascinazione per le diverse anime del nuovo cinema giapponese che, sull’onda pionieristica di Shinya Tsukamoto, tracciava nuovi caratteri sulle matrici dell’horror, del comico, del film storico e così via.
Per qualche anno ancora la Corea del Sud rimase in secondo piano nell’attenzione critica: pareva che i prodotti provenienti da quel paese perennemente a latere nell’immaginario culturale non riuscissero ad attingere né alla follia eversiva dell’ormai ex colonia inglese, né al prestigio autoriale dell’isola che fu Formosa. Ci sarebbe voluto il cambio di millennio perché la situazione – e la percezione – mutasse, dapprima lentamente, poi vorticosamente, fino a cambiare del tutto le carte in tavola. L’impatto dell’industria onnipervasiva di Hong Kong è andato via via a scemare, nonostante gli occasionali exploit dei soliti noti; sull’altro fronte, con la morte di Yang e il diradarsi dell’attività di Hou Taiwan ha ceduto le armi alla Cina continentale, dove Jia Zhangke si è fatto portabandiera di uno sguardo teso a superare la deriva formalista dei pionieri della Quinta generazione.
In questo scenario mutante sono arrivati loro, a valanga; in ordine sparso: le raffinatezze di Hong Sang-soo e Lee Chang-dong, gli estremismi di Kim Ki-duk e Park Chan-wook, le elaborazioni spettacolari di Bong Joon-ho e Kim Jee-woon, a reimpostare le coordinate di tutta una cinematografia, di cui finora i più conoscevano giusto pochi titoli dall’immenso corpus di Im Kwon-taek e qualche progenitore visto magari alla retrospettiva del benemerito Far East Film Festival di Udine, The Housemaid di Kim Ki-young in testa. Una pattuglia di cineasti di notevole varietà, dai profili individuali ben delineati, pronti a presidiare i festival di tutto il mondo, che arrivavano insieme a una pattuglia di blockbuster ad alto budget ed equivalente tasso di spettacolarità. Una vera e propria primavera di creatività che andava a braccetto col miracolo commerciale dei chaebol, nella più tipica delle accoppiate.
Per passare all’autobiografia: in quell’epoca organizzavo a Napoli, con l’associazione Dongfang, una rassegna dedicata al cinema dell’Estremo Oriente. Avevamo iniziato con la Cina, proseguito col Giappone – ospite Kiyoshi Kurosawa tra gli altri -, e terminato proprio con la Corea del Sud – purtroppo fummo costretti dal venir meno delle condizioni economiche ad annullare la quarta edizione, quella su Hong Kong, che avrebbe visto come ospite d’onore Peter Chan. Però possiamo dire di aver chiuso bene in quel 2007, perché fummo i primi a chiamare in Italia Bong Joon-ho e a dedicargli un omaggio con la proiezione di Barking Dogs Never Bite, Memories of Murder e The Host, poi replicata alla ormai defunta Sala Trevi di Roma – non per togliersi i sassolini dalle scarpe, ma, visto che in seguito allo storico trionfo di Parasite nella notte del Dolby Theatre il Florence Korea Film Fest ha rivendicato questo primato, ci tenevo a ripristinare una piccola verità storica. A dirlo oggi pare surreale, ma Bong fece un incontro col pubblico nella saletta di un’associazione culturale in centro, di fronte a uno sparuto gruppetto di appassionati per i quali con grande cortesia e generosità enucleò la sua visione del cinema, che del resto emergeva chiara nel terzetto di opere che accompagnava. Quei film già mostravano in tutta la sua complessità il suo profilo: una commedia sarcastica e corrosiva in cui la violenza dei rapporti sociali corre sottotraccia alle vicende di una cartoonesca ma umanissima coppia di losers; un viaggio in forma di crime movie con patina documentaristica, lacerata da straordinari salti di tono nel recente passato coreano e nella sua anima nerissima; un entusiasmante film di mostri dalle chiare connotazioni socio-politiche, di chi conosce a menadito storia e ingegneristica del genere e non ha paura di lanciarlo verso inedite commistioni tecno-tematiche. C’era il gusto sicuro dell’entertainment, la sottigliezza stratificata dei riferimenti, l’eclettismo incardinato su una visione sconsolata delle contraddizioni del suo paese, queste le solide basi di un cineasta pronto a rilanciare il discorso su scala universale, come puntualmente sarebbe avvenuto nel prosieguo di carriera. Il pubblico napoletano capì subito la portata del regista, e in particolare la sala di Castel Sant’Elmo risuonò per l’ovazione tributata a The Host. Bong, rilassato e disponibile, si godette gli applausi partenopei, e quanto a me posso dire di aver intuito quella sera che il piedistallo del superstardom registico era per lui assicurato.