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Il documentario e la risata

sabato 27 Marzo, 2021 | di Emanuele Rauco
Il documentario e la risata
Speciale Comicità
1

Ridere col cinema del reale
L’ultimo film della meravigliosa carriera di Jacques Tati si chiama Forza Bastia, fu realizzato nel 1978 assieme alla figlia Sophie ed è un documentario che racconta la finale di Coppa UEFA tra la squadra còrsa del Bastia, appunto, e il PSV Eindhoven. Può sembrare un dato sorprendente che chi ha inventato forme comiche così d’avanguardia abbia girato il suo ultimo film riprendendo la realtà, ma se lo si guarda (si trova online) e lo si confronta con gli altri film del maestro si possono scoprire numerose affinità. Perché quella di Tati è sempre stata un’arte documentaria, che osservando la realtà le dava una forma, certo, un ritmo comico, ma sempre realtà restava, deformata ma irriducibile. Le immagini reali di Forza Bastia semplicemente svelano quel meccanismo.

Se guardi la realtà infatti, se la usi per fare cinema, finisce che poi ti ritrovi anche a ridere e a far ridere lo spettatore, specie se nel tuo sguardo c’è la capacità di cogliere il lato umoristico o grottesco di quella realtà. Penso per esempio a due documentari italiani recenti come Liberami di Federica Di Giacomo (che non a caso nel 2006 realizzò un film dal titolo Il lato grottesco della vita sulle vicende di due guide turistiche abusive) che racconta le giornate di padre Cataldo, esorcista sui generis, e dei suoi fedeli che vogliono farsi esorcizzare in modi forse non ortodossi (per telefono, subito prima degli auguri di Natale), e Happy Winter di Giovanni Totaro in cui le capanne della spiaggia di Mondello diventano un luogo davvero “tatiesco”, che i frequentatori della spiaggia vivono, riadattano come mini-case, e dalle quali irrompe l’umanità buffa e meravigliosa. Entrambi i film non si trovano semplicemente davanti alla comicità della realtà, pur essendo film d’osservazione, ma usano la grezza materia comica e le danno statuto di immagine comica grazie alla regia e al montaggio, come fanno appunto i grandi cineasti della risata.

Punto di non ritorno, forse, di questo modo di concepire il documentario è Dick Johnson Is Dead, distribuito l’anno scorso da Netflix e diretto da Kirsten Johnson, che mette in scena il processo di elaborazione di un lutto che ancora non c’è stato: la regista infatti coinvolge il padre – 85 anni, vedovo di una donna morta di Alzheimer e con una demenza incipiente lui stesso – in una serie di siparietti in cui mettere in scena alcune sue possibili morti e l’arrivo al paradiso. Incidenti più o meno spettacolari, più o meno grotteschi, e un paradiso camp in cui ritrovare la moglie, la gioventù, persino le dita dei piedi che non ha a causa di una malformazione. È un modo giocoso per affrontare la perdita della memoria per lui, la perdita graduale del padre per lei e intanto cucire un filo sempre più stretto che possa legarli all’arrivo del momento fatale (che ancora non è arrivato).

Nel 2015, Johnson ha diretto un cortometraggio intitolato The Above al cui centro c’è un pallone aerostatico di sorveglianza che i militari fanno volare nel cielo di Kabul per motivi non chiari: un immagine che ricorda Intervento divino di Elia Suleiman, il pallone con l’effige di Arafat che vola sul confine tra Israele e Palestina. C’è un’altra immagine che lega la regista statunitense all’erede palestinese di Tati e si trova proprio in Dick Johnson Is Dead: appoggiatosi su una chaise longue, il protagonista comincia a sollevarsi da terra fino a sparire dall’inquadratura. L’immaginario che però costruisce il film non è legato a Tati, o a Suleiman, ma alla gloriosa arte dello slapstick, tanto che nel paradiso del padre appare Buster Keaton: gli incidenti che Johnson mette in scena per il padre sono la versione crudele e un po’ splatter dei tipici capitomboli della comicità muta, come cadute dalle scale, travi di legno che sbattono sulla faccia, computer che piombano dall’alto e così via. 

È quindi un documentario slapstick e contemporaneamente sullo slapstick che nel raccontare il lavoro di messinscena della comicità fisica è anche un omaggio a chi le gag le concepisce, le costruisce, a chi doppia i corpi degli attori – per quanto nel glorioso slapstick muto, gli attori prendevano le loro botte senza controfigure – e a chi poi monta le comiche tragedie. Ed è pure un documentario sul potere taumaturgico della risata, che va a costruire l’intero rapporto tra padre e figlia, come quando una battuta stempera la tensione straziante di fronte alla consapevolezza di Dick di non poter più guidare, di diventare sempre più prossimo alla figura della moglie (di cui Kirsten ci mostra qualche dolorosa immagine). Un rapporto che nasce da una risata, quella scaturita da Frankenstein Junior, il film con cui Dick ruppe le regole religiose degli avventisti portando la figlia al cinema per la prima volta.

Dick Johnson Is Dead è però soprattutto, al di là dell’auto-ritratto familiare, un film che si interroga sui limiti della risata, di ciò che si può mostrare per far ridere e di ciò di cui è lecito ridere, che non usa la famiglia e il discorso personale come scudo per superare le critiche ma come specchio per riflettere sul gesto di raccontare un momento così delicato attraverso la sua dissacrazione. Ridere di Dick e ridere con Dick, ma soprattutto – e qui si ritorna all’osservazione e a Suleiman – ridere di tutto ciò che gira intorno alla morte e dei nostri comportamenti rispetto a essa: il finto funerale, con l’amico di Dick che non riesce a suonare il corno, è esemplare.

Ridere per ridere, quindi, come diceva il titolo italiano di un film di John Landis, ma la storia della risata cinematografica e no insegna che dietro la risata non c’è mai solo quella, saper far ridere comporta tutta una serie di nozioni, tecniche e riflessioni che in un certo senso il film di Johnson mette in atto. Tra cui una fondamentale, quasi radicale (e molti comici vi diranno che è così: pensiamo alla commedia all’italiana): saper osservare, riuscire a guardare e capire, raccontare la realtà attraverso una risata. O viceversa.

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