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Alla scoperta di Alice Guy

sabato 22 Maggio, 2021 | di Emanuele Rauco
Alla scoperta di Alice Guy
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La donna con la macchina da presa
Le vulgate storiche non sono scritte sulla pietra, ma comunque danno indicazioni precise: La fée aux choux (1896) è considerato il primo film di finzione della storia del cinema e il primo film diretto da una donna. Quella donna è Alice Guy, una pioniera non solo per questioni anagrafiche.

Guy nasce in Francia, a Saint-Mandé, e comincia a lavorare come segretaria alla casa cinematografica Gaumont. Ha l’occasione di partecipare alla prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière nel dicembre 1895 e, lavorando a contatto con quella che poi diverrà la settima arte, si innamora del mezzo cinematografico. Recupera un po’ di pellicola e realizza, appunto, La fée aux choux, non una veduta come quelle dei fratelli inventori, ma una fantasia, una donna fata che fa spuntare bambini da sotto i cavoli, senza effetti speciali, per ora, ma con gusto scenico.

Guy si emancipa quindi passando dal ruolo di segretaria a quello di regista Gaumont, e realizza decine di film, sempre più lunghi e più complessi, cominciando a sperimentare con le novità del cinema, con il montaggio, gli spazi e le inquadrature, con narrazioni sempre più articolate.

Per esempio in Une histoire roulante (1906) gioca con un montaggio serrato e un primo accenno di “effetti speciali” per realizzare una comica rocambolesca in cui pare di vedere i prodromi dello slapstick di Keaton, con un uomo dentro una botta che rotola a perdifiato finendo per essere travolto da un treno.

Inutile, specie con i registi della preistoria del cinema, fare dell’autorialismo, cercare marche di enunciazione o stilistiche, perché proprio dell’eclettismo più totale facevano la loro forza, girando decine di cortometraggi l’anno: drammi sociali, commedie, film di gangster, opere letterarie e via elencando, non manca niente all’elenco delle prove di Guy che, stando al parziale elenco di IMDb, conta 455 film. La svolta arriva proprio nel 1906: sul set di Mireille, conosce l’operatore Herbert Blaché. È una svolta personale (si innamorano, si sposano, hanno due figli) ma soprattutto professionale, perché con un tecnico a fianco come sodale artistico Guy può ampliare il bagaglio dei propri film, può renderli più compiuti e attraenti.

I due si trasferiscono negli USA e nel 1910 fondano insieme a George A. Magie la Solax Company, società americana di Gaumont che possiede i Solax Studios, con cui Guy e il marito lavoreranno fino al ritiro. Così Guy diventa, come Lois Weber, una delle primissime donne a possedere una casa di produzione. È in questo contesto, di totale libertà economica e creativa, che Guy realizza i suoi film migliori e più famosi: il melò familiare Falling Leaves (1912) in cui una bimba lotta tra scienza e fantasia per salvare la sorella malata; The Girl in the Armchair (1912), forse il suo capolavoro, che racconta una storia di amore e usura, in modo disinvolto e già in odor di “classicismo”; Making an American Citizen (1912), satira vagamente razzista, ma anche curiosa, sullo stile di vita americano e il forzoso indottrinamento degli stranieri. Con gli anni i film di Guy si fanno sempre più lunghi ed elaborati, per venire incontro alle esigenze degli spettatori e di un’arte che Griffith cambia per sempre.

Guy continua a girare fino a quando, nel 1920, decide di ritirarsi. Allora comincia per lei un’altra storia, quella di pioniera che poco a poco viene dimenticata dall’industria e dagli spettatori, di un’artista che lotta per ricostruire il corpo perduto delle sue opere, che cerca di recuperare film non firmati ma etichettati solo con numeri di serie, che deve scrivere sotto pseudonimi maschili per essere pubblicata. È appunto un’altra storia, che potete trovare in Be Natural: The Untold Story of Alice Guy-Blaché, documentario del 2018 diretto da Pamela Green.

Noi oggi, nel nostro piccolissimo, ci limitiamo a scrivere di una donna che ha segnato la via, riscoperta grazie agli studi femministi degli anni Settanta e che oggi, fuori dall’Accademia, si vede tributato un riconoscimento grazie alla divulgazione (i documentari di Mark Cousins, l’opera di Indiecinema e di Criterion, persino YouTube è utilissimo in questo senso). Una donna che però non ha mai voluto che si facesse una bandiera di sé e del suo lavoro: basta guardare Les résultats du féminisme, commedia en travesti, in cui gli uomini interpretano le donne e le donne fanno gli uomini, secondo codici estetici e comportamentali rigidissimi che il cinema ribalta e irride.

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