Le radici di un’identità
In questi tempi per cui le definizioni e le battaglie identitarie sembrano centrali nel dibattito culturale, è forse importante cercare le radici delle identità per cui si vuole lottare, capire che percorso si è fatto da quel punto di partenza. Oscar Micheaux è quel punto di partenza; rappresenta le radici di chi si sta battendo, o di chi lo fa da molto più tempo, per l’identità del cinema nero.
Questa figura singolare e fondamentale viene raccontata da Francesco Zippel in Oscar Micheaux, il supereroe del cinema americano (ma il titolo internazionale sottolinea come sia il supereroe del black filmaking), presentato a Cannes Classic e al Cinema ritrovato di Bologna prima di approdare su Sky: se non è certificabile come primo regista nero della storia – il primato andrebbe a William Foster, attivo dal 1912 – è di sicuro il primo ad aver avuto successo con i suoi film e la sua produzione, ad aver affrontato il razzismo di Hollywood in modo completamente indipendente diventando un punto di riferimento per un’intera comunità.
La sua passione per l’arte, il romanzo prima e il cinema poi, nasce mentre si occupa di agricoltura o lavora sulla rete ferroviaria per poi diventare una professione quando una produzione gestita da neri gli chiede, nel 1919, di realizzare un adattamento dal suo romanzo The Homesteader. Da qui comincia una carriera durata quasi trent’anni che, con i suoi 43 titoli tra lungometraggi e corti, è diventata con il tempo un vero e proprio punto di riferimento per il cinema nero. Micheaux, dopo quel primo film andato perduto, ne gira un secondo che subito mette in chiaro chi sia e cosa voglia dire: Within Our Gates, il più antico film esistente diretto da un afroamericano (come sappiamo, si stima che quasi l’80% della produzione del muto sia andata persa), è una diretta risposta a Nascita di una nazione di Griffith, ribaltando l’ottica razziale del film del 1915 e mettendo in scena l’emigrazione interna dei neri e il razzismo che subivano. Soprattutto una scena desta scalpore, quella del linciaggio dei coniugi Landry, da una prospettiva opposta a quella eroica di Griffith.
L’altro grande insegnamento che Micheaux sembra donare a chi ne seguirà le orme è quello dell’indipendenza assoluta, del controllo totale sulla scrittura, la regia, la produzione e la distribuzione dei suoi film, che gli permetteva di non cadere nelle trappole degli approfittatori (bianchi, spesso) e di poter al contempo creare un proprio circuito di sale e spettatori, prevalentemente neri ma non solo. Un’indipendenza che con gli anni è divenuta consapevolezza artistica e disinvoltura tecnica che si è andata affinando film dopo film e che sembra interrompersi con l’avvento del sonoro e le incredibili difficoltà tecniche e realizzative a esso connesse.
Anche se la vena si è spenta col tempo, la sua eco si è fatta più forte oggi, i suoi film dicono ancora cose precise sulla condizione identitaria dei neri: il citato Within Our Gates o il successivo The House Behind the Cedars parlano di identità, sfumature, liquidità dell’io e distorsione delle percezioni in un modo che ricorda Passing, il film di Rebecca Hall in cui una donna nera dalla pelle chiara si fa passare per bianca per accedere a privilegi. A dimostrazione che le radici continuano a nutrirci anche quando sono lontane, quando hanno moltissimi anni e il mondo intorno a loro è cambiato.