La frammentazione del desiderio
Confermatosi come uno dei più talentuosi attori contemporanei, Mathieu Amalric prosegue parallelamente una carriera da regista, giunta all’ottavo film, centellinata e spesso sottostimata, adombrata dal suo percorso attoriale.
Con Stringimi forte l’Amalric regista raggiunge la vetta più alta, svelando la maturità del proprio sguardo e dimostrando di aver introiettato e di saper dialogare con il cinema fantasmatico, frammentato e incentrato sulla rappresentazione di Arnaud Desplechin (Tromperie ne è l’ultimo esempio), l’autore con cui ha collaborato più volte e al cui nome si è indissolubilmente legato.
Liberamente adattato da Je reviens de loin, una pièce teatrale di Claudine Galéa, il film racconta la fuga di Clarisse. Una fuga duplice e ambivalente, dapprima fisica, con la donna che si allontana misteriosamente di casa al mattino lasciando il marito e i due figli ancora addormentati. Mentre viaggia a bordo della sua auto, ripensando al passato e ascoltando le registrazioni al pianoforte della figlia, la fuga assume i connotati di un’interiorità tormentata ed enigmatica.
Tanto Sofocle quanto Giacomo Leopardi vedevano nell’immaginazione il più forte (se non l’unico) rimedio ai dolori ineluttabili della realtà; una fuga consapevole e illusoria tramite cui ricercare la felicità. È ciò che accade a Clarisse, sconvolta da un dolore talmente grande da lacerare l’anima e il mondo attorno a sé, rendendolo intollerabile. Per opporsi alla coltre di solitudine e malinconia che la opprime, non rimane che l’evasione più radicale che porta allo sdoppiamento del presente e allo slittamento offuscato dello spazio e del tempo. Clarisse si affaccia alla finestra dei ricordi, dialoga con essi, li espande sino a far vivere i propri fantasmi, nel tentativo di dare ordine ai frammenti della sua esistenza.
Ma Stringimi forte è un film sul gesto dell’immaginazione, più che sull’immaginazione stessa. Sul suo farsi, sulla creazione a opera di Clarisse, che plasma e dà vita alle ombre, al pensiero e ai suoni così come avviene proprio con il cinema o con la musica, rendendo l’arte l’espressione massima dell’evasione, della costruzione di una nuova e più allettante realtà. È un gesto che si traduce nei raccordi che dominano il film (non solo tematici ma anche simbolici, come l’auto e la musica), nelle sovrimpressioni astratte, così come nell’oscillazione del suono che anticipa spesso la propria scena di riferimento o sconfina in quella successiva.
I suoni e le immagini sfuggono ai loro confini e fluttuano riverberandosi nel tentativo di comporre una nuova armonia. La musica è ben più di un accompagnamento, diventa l’asse portante e si intreccia con la struttura del film, dove la dissonanza della frammentazione si fa armonica. Sono le note di Beethoven, Debussy, Chopin, Ravel a veicolare le emozioni e a tessere l’intreccio dell’immaginazione, facendo da filo conduttore tra Clarisse e la figlia. S’interrompe solo nel momento del disgelo finale, materiale e metaforico, quando la realtà torna a galla con prepotenza, inesorabile, demolendo per un istante le pareti della fantasia. A quel punto non rimane che ricominciare, tornare a riallacciare i ricordi, i pensieri, i desideri. Continuare a creare e a vivere.