Bel Air è sempre la stessa, i tempi no
Nato da un finto teaser uscito sul web nel 2019, che ha entusiasmato Will Smith, felice di appoggiare il progetto, Bel Air è il reboot in chiave drammatica di Willy il principe di Bel Air. Lontano dai toni da situation comedy che avevano reso la serie un cult negli anni ‘90, la ricontestualizzazione passa dal setting ma soprattutto dalle tematiche.
Criminalità, razzismo, l’influenza dei social media, l’utilizzo politico di problematiche sociali, il ruolo della famiglia. Bel Air ha le idee chiare su come riscrivere la serie, a partire dal pilota che in sostanza è una densa rilettura di ciò che veniva narrato nella celeberrima sigla. Il protagonista Will Smith – c’è giusto un pelo di autocompiacimento – lascia Philadelphia a seguito di un alterco armato con uno spacciatore e per stare al sicuro raggiunge Los Angeles ospitato dagli zii.
Proprio dalla presentazione del resto della benestante famiglia si evince il lavoro di riscrittura:
l’amorevole zia Vivian è una sofisticata donna dell’alta società con un passato d’artista; Hilary una giovane influencer con grossi problemi di emancipazione; Ashley adolescente sensibile con a cuore temi green e LGBT; Geffrey house manager ma con un’attività tentacolare negli affari della famiglia; e poi ovviamente lo zio Phil e Carlton. Il primo un uomo influente, in ascesa come procuratore distrettuale e in politica; il secondo un cocainomane geloso della rapida ascesa sociale di Will. Proprio come nell’originale i due sono ai poli opposti del protagonista, che venendo dalla strada mal si adatta alla rigidità degli schemi alto borghesi. Tra loro inizierà una collaborazione non semplice che però porterà lo zio Phil a riscoprire il contatto con l’elettorato black, ma soprattutto Carlton ad alla propria cultura d’appartenenza, per la quale mostra da sempre noncuranza e un inconsapevole razzismo.
Se in Bel Air lo spunto delle tematiche sono ben delineate e complesse non lo si può dire altrettanto dello sviluppo, nel quale il potere economico e politico di Phil e la genuinità naïf di Will diventano soluzioni, o peggio deus ex machina, a risolvere tutte le problematiche che sorgono, come se esse bastassero a fare da cappa a tutto ciò che accade alla famiglia. Cioè, la serietà ostentata si rivela avere la stessa profondità drammaturgica della sitcom, con qualche dialogo in più e molte gag in meno, perdendo peraltro quella verve, dovuta soprattutto al suo protagonista, che qui è solo una forzata imitazione della serie degli anni Novanta. Il tutto appesantito da una retorica sull’importanza della difesa del nucleo familiare, che alla luce anche dello “schiaffo” degli Oscar assume contorni un po’ distorti.
Bel Air inizia nel segno del fascino al confronto/scontro con l’originale, ma si ingabbia velocemente nella retorica buonista del “fa la cosa giusta”. Will più che elemento destabilizzante per le rigidità di una famiglia borghese è un trasformista che ben si adagia opportunamente alla bella vita per raggiungere quel “big shot” che da sempre sogna. Insomma, per restare come Will sulla strada, se The Fresh Prince era hip hop, Bel Air sembra un po’ più trap… e più paraculo.