Un franchise in via d’estinzione?
1932. Impossibilitato a scontrarsi con l’ex-fiamma Grindelwald a causa di un potente patto di sangue stretto in gioventù, Albus Silente assembla una squadra d’infiltrazione per impedire l’ascesa del mago oscuro e sventare una guerra di stampo nazista fra maghi e babbani. Del team fa parte il magizoologo Newt Scamander, in possesso di una rara creatura da cui potrebbe dipendere l’esito della missione.
Si può ben dire che questo terzo episodio dell’universo Animali fantastici rappresentasse una prova del nove per il futuro cinematografico del brand targato J.K. Rowling.
Dopo un avvio di saga probabilmente sottovalutato, in grado di mostrare il potenziale ancora inespresso del Wizarding World, la china è stata infatti discendente. La fiducia nelle doti di sceneggiatrice della “maga dietro Harry Potter” si è incrinata davanti al pastrocchio de I crimini di Grindelwald (2019), quasi un anti-manuale di scrittura per lo schermo, che falliva su tutta la linea nel compito di coniugare la cornice un po’ pretestuosa delle avventure zoologiche di Newt con le ambizioni di un world building in grado di riallacciarsi agli eventi dell’eptalogia potteriana.
Intanto la saga ha dovuto fare i conti coi danni inflitti alla propria immagine mediatica dall’offuscamento di alcuni suoi volti simbolo. Gli attriti fra Rowling e la comunità trans, il processo per abusi domestici che ha visto coinvolto Johnny Depp, e più di recente i guai di Ezra Miller con le autorità, non sono solo materiale per tabloid; essi impattano in modo diretto sulla comunicazione col pubblico, non ultimo creando l’interessante contraddizione (letale in un’epoca che prescrive di esibire perfezione morale dentro e fuori dal racconto) rispetto al contenuto politico dei film, tutto incentrato sulla difesa dei fragili valori democratici e delle identità marginali minacciati dall’incombere di nuove forme di “suprematismo”.
Davanti a cotanta matassa da sbrogliare, non stupisce che Animali fantastici – I segreti di Silente appaia come un film tutto giocato in difesa. Warner cerca di fare ammenda e mostra alla folla inferocita le teste dei colpevoli, quelli non intoccabili si intende. Depp saluta il ruolo di Grindelwald, sostituito da Mads Mikkelsen; J.K., che per ovvi motivi non si può liquidare, scompare prudentemente dai titoli di testa. Più importante, perché influisce direttamente sulla qualità del prodotto, è affiancata in fase di sceneggiatura dal fido Steve Kloves, autore degli script di tutti e otto i film di Harry Potter, mentre la mano ferma di David Yates – in un paio di punti più briosa di quanto si tenda a concedergli – garantisce la continuità visiva.
Dopo i “crimini” del secondo capitolo si tira in effetti qualche sospiro di sollievo. Mikkelsen, attore che non sembra mai abbandonare lo stato di grazia, è più carismatico e adatto al ruolo di un Depp ormai ombra di se stesso. Gli sceneggiatori, pur fra diversi passaggi a vuoto e pedantezze letterarie, riportano la scrittura su livelli accettabili di fluidità e comprensibilità, aumentando i punti di contatto con la saga principale allo scopo di corteggiare un fandom ormai scottato e relativamente disinteressato. La queerness (per lenire i lividi dell’affaire Rowling?) esce finalmente dal sottotesto, ispessendo il vissuto e rendendo meno bozzettistiche alcune delle figure principali.
Si tratta indubbiamente di passi avanti, forse sufficienti a evitare il peggio e garantire la sopravvivenza della saga. Ma difficilmente potranno riaccendere l’entusiasmo intorno a una narrazione che continua ad apparire spompa e poco ispirata, quasi più interessante come caso di studio che come pallida erede contemporanea di un fenomeno culturale che solo dieci anni fa faceva tremare il mondo.