Garland alza l’asticella
Alla sua uscita, già la bellissima opera prima Ex Machina era stata salutata come film cripto-femminista da alcuni critici britannici, con temi dissimulati nello splendido volto di Alicia Vikander robot alla commovente ricerca di libertà e risposte; mentre l’inquieto e inquietante Annientamento portava in scena il Bagliore come luogo misterioso di una geografia del dubbio per cercare il cambiamento, che deve sostituire la conservazione, con una squadra di salvataggio tutta al femminile che contava come affermazione fortissima, in un momento storico (parliamo del 2018) nel quale la differenza di genere è il punto da cui partire e non la questione da risolvere.
Per capire meglio Men, allora, dobbiamo partire proprio dalle fasi finali di quel secondo film di Alex Garland: dove vedevamo il protagonista maschile perdere il confronto con quello femminile (Natalie Portman) che in quanto donna riusciva a uscire indenne dal Bagliore perché era capace di farsi corpo instabile e quindi farsi abitare lasciandosi attraversare dalle sue infinite possibilità. Il corpo umano, per Garland, deve essere pensato e risolto filosoficamente in termini di flusso in divenire di incredibile urgenza.
Certo, il limite (probabilmente l’unico) del regista è quello di fare un cinema a tratti troppo dominato dalla logica spettacolare della semplificazione: anche se con Men l’asticella si sposta più in alto, ammantando le riflessioni con una messa in scena enigmatica. Il film sembra quindi il suo più apertamente “analogico”, lontano dai meccanismi della robotica ma sempre ambientato in luoghi isolati e lontani dalla civiltà, dove la protagonista (ancora una volta una donna, forte e determinata anche se in crisi, con il volto di Jessie Buckley, che con le precedenti ha in comune una fisicità apparentemente fragile che si oppone ad una robustezza interna) riflette intorno a lei la sua solitudine. Ancora una volta una donna, forte e determinata anche se in crisi, con il volto di Jessie Buckley, che con le precedenti ha in comune una fisicità apparentemente fragile che si oppone ad una robustezza interna. Men procede in un percorso misterico: l’incipit fa partire la storia con una mela mangiata a simboleggiare un peccato originale; l’ingresso in un tunnel buio dal quale all’ingresso si intravede solo l’uscita lontana, e dalla quale emerge una figura, il da lì a poco antagonista; e un sorriso verso una nuova vita. Gli spazi tra alfa e omega sono stracolmi di segnali, indizi, tracce: idoli malvagi, forze misteriose, una Natura ancora una volta nemica, e ondate di emozioni che variano dal rimorso alla colpa, dalla paura al desiderio, sotto il quale la superfice della quotidianità si frantuma per far precipitare la protagonista in un oscuro luogo di caos e dolore.
Men è un film complesso e stratificato, forse fino all’eccesso, che compie un percorso urgente, agghiacciante e spaventoso risalendo fino a corpi ancestrali di una mascolinità tossica che riproduce sé stessa in un labirinto circolare che può solo sembrare senza uscita. Correndo verso il finale, mentre Buckley sembra fuggire nella notte e, incontrare anche lei una specie di Bagliore nel cielo: si, perché anche qui, l’universo è un luogo inconoscibile, dove orrore e intimità, natura e sogno, si intersecano su un sentiero che si inoltra nei contorti meandri della natura umana.
Ma Men è “analogico” anche e soprattutto nella ripresa, diretta e lucida ma non senza sofismi d’autore, di un patriarcato che si esprime con sguardo cristiano e pagano insieme, aggirando il peccato originale di una mascolinità che rifonda i suoi errori in un processo evolutivo ed ereditario macchiato di sangue.
In questa sua profondità di senso, e insieme nella sua consapevole e attualissima modernità, Men di Garland fa il paio con un altro grandissimo film, Nope di Jordan Peele, nel momento in cui sanno entrambi mettere al centro di un storia (che ibrida l’horror, genere prediletto per gli studi antropologici, con altre coniugazioni narrative) l’identificazione sociale di massa in un problema che si traduce con la capacità di mettere in scena le nostre paure e i nostri dolori.
E quindi la parte più profonda e sincera di noi.