Non è sempre e solo questione di tradimento o fedeltà, di nuove tecnologie o presunte derive politicamente corrette. A volte persino l’abusata pratica del live action può dimostrarsi più sottile di quanto non sembri, prestandosi a nuovi usi e inaspettate rivisitazioni.
Lo sa bene Robert Zemeckis, che nel suo approccio a un classico intramontabile come il Pinocchio della Disney decide di scostarsi – per quanto possibile – da questa nuova tradizione calligrafica per affrontare il mito a modo suo. Regista da sempre contraddistinto dal piacere per la sfida produttiva, stregato dalle possibilità dell’animazione (da Polar Express a A Christmas Carol) nonché dalla sua capacità di ibridarsi con il live action (Chi ha incastrato Roger Rabbit), Zemeckis non poteva che trovare in Pinocchio il terreno ideale per l’ennesima tappa del suo percorso registico. Quale opera migliore, infatti, di una che metteva in scena sin da subito la dicotomia tra animato e inanimato, elevando la tecnica a magia?
«Di cosa si è capaci oggi!», esclamava, ammiccando in macchina, il Grillo Parlante dopo che il burattino prendeva vita nel film del 1940. Ed è proprio quello stesso incanto e quella stessa magia dell’animazione che Zemeckis, con il suo nuovo bagaglio tecnico, cerca di ritrovare. Per farlo da vita a un film classico ma allo stesso tempo sottilmente divergente, fino a intaccare il senso stesso della storia di metamorfosi raccontata. Ecco allora dietro all’aspetto in CGI di un Pinocchio più che fedele al classico animato, fare capolino un cambio sostanziale nella caratterizzazione del personaggio. Il Pinocchio di Zemeckis, infatti, non è né un ribelle né un irresponsabile, tutt’al più una vittima degli eventi e del (nostro) tempo («Perché vorresti diventare vero quando puoi diventare famoso?», gli chiede la Volpe), quasi come se a essere manovrata fosse piuttosto l’umanità che lo circonda, condannata a ripetere gli stessi errori e le stesse nefandezze in un balletto eterno da marionetta.
Perché mai, allora, Pinocchio dovrebbe aspirare a essere un bambino “vero”? C’è realmente bisogno, insomma, che l’anima, anche questa volta, debba farsi carne? Da qui la necessità di un finale sospeso, che si scosti esplicitamente dalla tradizione e ridisegni la storia, ribaltandone la morale o, forse, rendendola semplicemente più esplicita. In fondo, Pinocchio non deve cambiare, perché è il suo viaggio di formazione ad averlo portato fin lì, oltre l’illusoria convinzione di essere imperfetto, incompleto, non finito (emblematico, in questo senso, il nuovo personaggio della marionettista Fabiana), finalmente consapevole che forse, a dover cambiare, è invece lo sguardo di quell’umanità “in live action” che lo circonda.
Sta tutto qui, in definitiva, il pregio principale del Pinocchio di Zemeckis. Un’operazione che aggiorna senza ribaltare, innova senza stravolgere, senza cercare (tranne che per gioco) il calco a ogni costo o il sovvertimento sensazionalistico, riuscendo così persino a ritrovare – nonostante qualche inciampo e una resa degli effetti speciali non sempre eccelsa – l’anima del suo bambino di legno e quella del cinema del suo autore.