Avevamo lasciato Paolo Virzì arenato in notti magiche: che al di là del calembour lessicale, era un film spento e inspiegabile all’interno di una filmografia che, seppure tra alti e bassi (come il deragliamento con Ella & John e gli abissi emotivi di Il capitale umano), era sempre stata vitale e capace di vette altissime, riuscendo in tanti casi a riprendere quella commedia di costume tanto vicina e da tanti ricercata che era la commedia all’italiana, capace di castigare ridendo mores.
Dopo la visione di Siccità, però, tutto sembra avere un senso: perché il regista di questo film apocalittico e bellissimo, impervio e non certo perfetto ma affascinante e oscuro, inquietante e sopraffino, non è (più) certo quello che raccontava la destra e la sinistra irridendo entrambe le barricate durante le loro ferie d’agosto, e neanche quello che metteva in scena la pazza gioia con leggerezza e sguardo malinconico.
Proprio come se quel Notti magiche sia stato una sorta di dazio da pagare, un rito di passaggio, per scrollarsi di dosso tutto quello che era diventato pesante e risaputo e poter guardare il (proprio) mondo (artistico) con altri occhi. Perché Siccità è un film che prima di tutto è pieno di coraggio e intuizioni straordinarie. Provateci voi, a dire il titolo di un film italiano che giochi con un genere così visionario e difficile come la fantascienza apocalittica e metta in scena una Roma di un vicinissimo futuro desertificata da una siccità che dura da più di un anno, flagellata da un Tevere prosciugato e da blatte che infestano ogni dove. E ancora coraggio per guardare da vicinissimo Robert Altman e America Oggi (o Nashville, a seconda dell’ispirazione preferita) e declinare quella visione umana ed esistenziale incuneandola nella cultura italiana, nel nostro presente. Intuizioni straordinarie: prima di tutto, perché ci vuole un colpo d’autore per immaginare uno scenario così apocalittico come quello raccontato sopra, innestandolo alla perfezione con le tante piccole grandi ossessioni cinefile e d’artista. E poi perché il film può sembrare un’instantmovie, tra pandemia e mancanza di pioggia, rivelandosi invece profetico in modo così stringente da lasciare quasi senza fiato. Perché Siccità ha il pregio della migliore fantascienza: quella che guarda al futuro per riflettere sul presente, quella che sfrutta suggestioni lontane per capire meglio le dinamiche umane ed evitando così l’errore quando si osserva troppo da vicino qualcosa.
La caratteristica del miglior Virzì è sempre stata la capacità di osservare e restituire i caratteri della contemporaneità, senza mai cadere nel bozzetto: e questo quindicesimo lungometraggio lo conferma, in un contesto però così alieno a lui da farne risaltare ancora di più la potenza e l’incredibile capacità di capire lo zeitgeist.
Mosaico di personaggi, labirinto di vite, strade perdute di esistenza che si sfiorano e cadono una sull’altra come pedine di un domino invisibile: scena dopo scena, momento dopo momento, Siccità acquisisce una maestosa altezza emotiva e strutturale da lasciare interdetti prima, affascinati alla fine.
Paolo Virzì conferma la sua straordinaria tecnica (tutto l’inizio – e il simmetrico finale – hanno una tale convergenza e perfezione millimetrica da creare una tensione magistrale) e la sua padronanza dei vari elementi cinematografici (la fotografia è bruciata e riarsa, come i dialoghi sembrano scarnificati e inariditi) per un film inaspettatamente cupissimo.
Che oltretutto ha come punto di forza un cast tanto ampio quanto centrato (da Valerio Mastandreaa Monica Bellucci, da Tommaso Ragnoa Elena Lietti, e poi ancora Claudia Pandolfi, Vinicio Marchione, Diego Ribon, Emanuela Fanelli, Gabriel Montesi, Sara Serraiocco: anche se inevitabilmente l’applauso più lungo va a un incredibile Silvio Orlando) che dà il volto e l’anima a personaggi che prendono tantissimi percorsi diversi e lontani, si perdono e si ritrovano, eppure mantengono una forza centripeta che li riporta sempre lì, in quel cuore nero del racconto, che è poi anche il nostro.
Dove siamo tutti orrendi quando veniamo fuori, come gli scarafaggi, dal buio che ci teniamo dentro.