La realtà attraverso l’illusione
“No hay banda!”. Nel Club Silencio di Mulholland Drive il presentatore ripete più volte, e in varie lingue, che non c’è l’orchestra. Eppure si sente una musica, compare un musicista e il suono sembra generarsi in diretta. Ma l’orchestra non c’è. È l’illusione, è il cinema, lo sconfinamento e la riproduzione della realtà. A una siderale distanza geografica e cinematografica, ne Gli orsi non esistono di Jafar Panahi viene invece ripetuto spesso che “non c’è connessione”, nel piccolo paese prossimo al confine con la Turchia. Un’assenza che ritorna più volte nel cinema del regista iraniano,come ad esempio in Tre volti.
Tuttavia, il proprietario della casa in cui alloggia Panahi non si spiega e si stupisce di come sia riuscito a connettersi per la sua videochiamata.
Ma nel bellissimo piano sequenza d’apertura la connessione più sorprendente è quella che unisce due luoghi distinti, astraendoli dalla propria collocazione spaziale. All’inizio ci troviamo tra le strade di una città turca e con una panoramica l’immagine si sofferma su alcuni passanti, racchiudendo quel pedinamento quasi zavattiniano e quel passare di volto in volto e di corpo in corpo che spesso regola il cinema di Panahi, fino a focalizzarsi su un alterco tra un uomo e una donna. Con uno zoom all’indietro, anticipato dall’ingresso della voce fuori campo dello stesso Panahi, scopriamo poco dopo che il regista stava osservando dal proprio computer la suddetta scena, girata da una troupe a distanza di chilometri e interrotta dalle sue indicazioni. Non potendo lasciare l’Iran e avvicinatosi il più possibile al set, segue e indirizza le riprese dal proprio alloggio. Ancora una volta è l’illusione del cinema a palesarsi e a invadere la realtà, svelando il proprio trucco e in questo caso annullando un limite fisico. L’illusione si rivela sin dal titolo del film; non ci sono orsi, non esistono in quelle zone, è una leggenda creata dagli abitanti del paese per far rispettare le norme e le leggi morali instaurando la paura.
Jafar Panahi fa della connessione tra cinema e realtà il proprio campo di indagine sin dall’inizio della carriera, cercando di raccontare e mostrare l’anima più profonda dell’Iran e del suo popolo, senza trascurare i lati problematici e oscuri che lo affliggono. È una connessione che dapprima si presenta in forma diretta (come la circolarità alla base de Il cerchio), diventando poi impossibile e ponendo il regista in conflitto con le autorità, fino al primo arresto nel 2010. In Iran si può filmare la realtà ma non quella ritenuta disdicevole, per non macchiarsi di “sordido realismo” (accennato dalla nipote in Taxi Teheran) e per non rendere il film “indistribuibile”. Ecco che la realtà perde ogni confine, esiste e non esiste, è visibile e al tempo stesso non lo è, finendo con il trasformarsi essa stessa in fantasma illusorio. Nella seconda parte di carriera Panahi ha continuato a girare film nonostante le restrizioni e il divieto, inserendo sé stesso e il cinema al centro della narrazione. Si è costruito un proprio Club Silencio in cui compare in prima persona, divenendo un filtro, e in cui svela l’atto cinematografico e il suo farsi. Gli orsi non esistono prosegue questo filone e ne diventa una summa, riplasmando ancora una volta le forme di quella connessione tra cinema e realtà di cui Panahi si fa simbolo. Un nuovo racconto metatestuale originato dalla condizione reale del regista, che si rispecchia nelle fughe, nei viaggi notturni al confine, negli abitacoli delle vetture, negli sguardi indagatori e nelle dinamiche limitanti. Come in un continuo gioco di riflessi e di scatole cinesi, la realtà (quella del regista) affiora nella finzione e la finzione (il film che stanno girando in Turchia) racconta una realtà di fuga ed evasione. Tutto riconduce sempre a Panahi, che riflette sulla natura rappresentativa ma anche manipolatoria dell’immagine e che attraverso questi reiterati rimandi, digressioni e parentesi continua a osservare la vita del paese, le dinamiche familiari e le abitudini popolari. Il “sordido realismo” viene camuffato per mezzo dell’illusione, perché ormai la realtà può essere mostrata solo mediante la finzione e l’atto della sua rappresentazione, con l’immagine che non può più essere imbrigliata.