Il re del capitombolo
Per intuire il talento infinito e prodigioso di Buster Keaton basta guardare una scena da lui diretta all’interno di un film dimenticato come I fidanzati sconosciuti, musical del 1949 per la regia di Robert Z. Leonard, in cui lo stesso attore-regista appare in un piccolo ruolo: è la sequenza in cui i protagonisti Van Johnson e Judy Garland si incontrano, un incrocio fortuito che diventa un piccolo capolavoro di trovate comiche.
Di queste riscoperte piccole e grandi vive The Great Buster, il documentario di Peter Bogdanovich che è arrivato anche nelle sale italiane (a 4 anni dalla presentazione alla Mostra del cinema di Venezia, dove vinse come miglior documentario sul cinema) per poi essere inserito nel cofanetto home video che la Cineteca di Bologna ha realizzato con alcuni dei suoi film più belli.
Il film segue un percorso abbastanza lineare , raccontando la biografia del comico fin dalla nascita (il nome d’arte Buster deriva da ‘capitombolo’, l’arte di cadere in cui eccelleva fin da bambino sul palco coi genitori), mostrando le immagini del suo percorso artistico e alternandole con interviste ad attori, registi, storici e critici che lo hanno conosciuto o vi si sono ispirati. Può lasciare perplessi la scansione cronologica del film: arrivato al 1922, anno dei suoi ultimi corti, Bogdanovich accenna ai suoi lungometraggi – capolavori di una carriera, di un intero decennio e di un intero periodo della storia del cinema – per concentrarsi sull’avvento del sonoro e il rapporto con gli studios che lo distrussero e lo portarono all’oblio fino a quando, grazie alla tv e alla presenza di Eleanor Norris, la sua terza moglie, poté tirarsi fuori dal rischio della tragedia. Emergono spezzoni poco noti e preziosissimi dalle comiche sonore girati per piccoli produttori indipendenti o alcuni magnifici spot pubblicitari realizzati tra gli anni ’50 e i ’60 o ancora, le bellissime Candid Camera in cui mostra l’arte della pantomima (peccato solo che Bogdanovich sottovaluti un film magnifico come Film di Samuel Beckett).
Poi arrivano gli ultimi 40 minuti ed è come se il regista del documentario avesse voluto tenersi il meglio per il finale: dopo aver raccontato l’addio di Keaton, Bogdanovich comincia a descrivere e analizzare quel pugno di lungometraggi realizzati da indipendente, dal 1923 al 1928, da The Three Ages a Io… e il ciclone che hanno cambiato il cinema, ne hanno rivoluzionato senso spettacolare e ambizioni produttive, coniugando la risata con le possibilità visionarie della settima arte. La cascata in La legge dell’ospitalità, l’inseguimento delle donne e delle rocce in Le sette probabilità, il gioco delle parti e dei piani temporali in La palla nº 13, le prodezze ferroviarie di Come vinsi la guerra o l’incredibile uragano di Steamboat Bill: “il migliore effetto speciale era lo stesso Buster”, dice Bogdanovich commentando le incredibili acrobazie del comico che nell’Italia dell’epoca era chiamato Saltarello. Questo film, e soprattutto quei minuti dedicati alla sua epoca d’oro, lo dimostrano.