La perdita e la rinascita
Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del 75° festival di Cannes, Un bel mattino è il nuovo film di Mia Hansen-Løve, che qui si ispira alla propria biografia e prosegue il suo cinema intimista ed esistenziale.
La protagonista è Sandra, una giovane vedova che cresce da sola la figlia Linn in una quotidianità divisa tra il lavoro di traduttrice, l’assistenza al padre malato e la relazione precaria con Clément, un amico di vecchia data sposato e con famiglia.
Come si può evincere dalla vicenda, l’opera si basa sull’alternanza tra due poli opposti: da un lato, il lutto, la perdita e il dolore, dall’altro l’amore e il riaffiorare della passione e della vita. Da una parte, il film si sofferma a lungo sul rapporto tra Sandra e il padre, un professore con una malattia degenerativa del cervello che lo porterà gradualmente alla perdita di coscienza e alla morte. Una situazione che la regista segue dal punto di vista della giovane donna, la quale impara ad accettare la perdita del genitore, preparandosi così a un nuovo lutto dopo quello per il marito di cinque anni prima. Il tutto con una narrazione sobria e sommessa, che mostra la sofferenza della protagonista senza mai virare nel melodramma, forse perché l’autrice è interessata a raccontare anche il percorso psicologico di rassegnazione e accettazione della protagonista, come dimostra l’episodio in cui Sandra dona alcuni libri del padre ai suoi ex studenti, cercando così di condividere e di tenere vivo negli altri non solo un generico ricordo del genitore, ma anche e soprattutto la vita intellettuale dell’uomo, che la malattia sta svuotando inesorabilmente. Ma Mia Hansen-Løve lascia molto spazio anche alla relazione amorosa e sessuale tra Sandra e Clément, una relazione incerta e precaria che per la protagonista rappresenta però un ritorno alla vita, all’amore e al desiderio, e dunque alla speranza di poter finalmente superare la morte del marito, tornare a essere serena e vivere il “bel mattino” del titolo.
I due poli presenti nel film sono ottimamente racchiusi dall’interpretazione di Léa Seydoux, qui in una delle sue prove migliori, capace di far coesistere emozioni contrastanti anche in un solo sguardo, grazie a un semplice movimento degli occhi o delle labbra. Una copresenza di piani narrativi e di sentimenti opposti ben sottolineata anche della fotografia di Denis Lenoir, la cui luminosità diffusa fa da contraltare alla vicenda spesso drammatica della protagonista, insieme al motivo musicale che scandisce alcuni momenti dell’opera.
Tutto ciò in un film al tempo stesso semplice e profondo, colto (molti i riferimenti alla letteratura e alla filosofia) ma mai snob o supponente, nel quale Mia Hansen-Løve riesce a scandagliare i sentimenti della protagonista in modo toccante e delicato. Elementi che fanno dell’opera in questione un notevole passo avanti in una filmografia finora altalenante e non sempre incisiva, composta da titoli riusciti (Eden e Un amore di gioventù) ma anche da lavori un po’ freddi (Sull’isola di Bergman) e anonimi (Le cose che verranno), che non andavano oltre il medio film d’essai destinato al pubblico più o meno colto. Qui, invece, l’autrice mantiene i punti cardini del suo cinema (il racconto intimista, i toni tenui e l’ambientazione borghese) con una maggiore consapevolezza registica e un tocco che si fa sempre più personale e riconoscibile.