L’occhio che uccide
Angela Childs, operatrice per Amygdala, società che sul modello di Siri e Alexa ha creato l’assistente virtuale Kimi, soffre di agorafobia a causa di un’aggressione sessuale. La pandemia ha accentuato la sua situazione e, non riuscendo a uscire di casa, vive e lavora costantemente all’interno del suo appartamento. Mentre aggiorna l’algoritmo di Kimi in base alle registrazioni vocali che ascolta, si imbatte in un audio che potrebbe essere la prova di un omicidio.
In un periodo in cui l’attenzione ruota principalmente attorno a discussioni sugli Oscar, alla situazione delle sale cinematografiche e alla scalata verso il successo al botteghino, c’è un cinema che si mostra sempre più avulso da queste logiche e spesso lontano da qualsiasi riflettore, ed è quello di Steven Soderbergh.
Il suo ultimo film, Kimi, è uscito direttamente su alcune piattaforme pay per view a distanza di quasi un anno dalla sua uscita americana, ex abrupto e ben nascosto nel vorticoso oceano dello streaming. Eppure, il cinema di Soderbergh (che dopo un periodo di pausa è giunto al settimo film in sei anni) è uno tra i più lucidi e preziosi nell’indagare nel profondo, tra le maglie del genere, l’esistenza tecnologica, il presente e la sua immagine.
La struttura narrativa di Kimi (scritto da David Koepp) si avvicina a quella che David Bordwell definisce Eyewitness Plot, ovvero quando il protagonista vede (o sente, in questo caso) quello che sembra essere un crimine e chiede alle autorità di intervenire. Un racconto ammantato da suggestioni che rievocano il cinema di Coppola, Hitchcock, De Palma e Fincher (il rifugio che si trasforma in reclusione e l’oppressione del confinamento di Panic Room, scritto dallo stesso Koepp). Soderbergh però non ha alcun ambizione citazionista e non è interessato a riproporre modelli narrativi passati con sbiadite o stanche variazioni (come accade troppo spesso), ma introietta concetti e sguardi per riplasmarli sul presente, con un approccio quasi scopico; un presente in cui l’esasperazione tecnologica viene accentuata dagli effetti e dai residui della pandemia. Il mondo in cui abita Angela è un mondo composto da innumerevoli finestre, connessioni capillari e inevitabili che le permettono di poter vivere interamente in casa. E così le finestre fisiche, da cui osserva i vicini (tra cui il suo amante), trovano un corrispettivo in quelle digitali, attraverso cui lavora, entra in contatto con la vita di persone sconosciute, parla in videochiamata con la madre, chiede aiuto a un tecnico che abita in Romania e si fa persino visitare dal dentista. L’immagine contemporanea è quindi un’immagine frammentata, un puzzle dagli incalcolabili pezzi (come quello che le fa da portachiavi e su cui più volte l’inquadratura si sofferma), scomposto dagli occhi delle videocamere e da molteplici e inaspettati sguardi. Un reticolo che finisce con il soffocare e l’irretire Angela, incapace di uscire di casa nonostante i tentativi, fin quando non si imbatte in quel comprovante audio, che appare per lei come un punto di rottura (sottolineato dalla caduta della bottiglia posta in bilico sul piano della cucina). Una volta uscita di casa, per raggiungere la sede dell’Amygdala, la stabilità delle inquadrature che accompagnava Angela all’interno dell’appartamento deflagra in un nervoso e vorticoso pedinamento della ragazza per le strade della città, con immagini che perdono la fissità dell’orizzonte. Soderbergh esprime così il turbamento della protagonista nel lasciare il proprio rifugio e nell’affrontare le proprie ossessioni, mentre l’inquietudine e il senso di sopraffazione che Angela prova affiorano anche nel suo comportamento e nel modo di muoversi, che all’improvviso si fa meccanico e rigido, scivolando tra strade, mezzi pubblici e corridoi con fare vampiresco.
Rispetto ai film che riecheggiano nel racconto non ci sono più dubbi persistenti, non siamo più sul filo dell’ossessione e della paranoia, non c’è più un mistero da sondare nell’immagine e nel suono, tanto che quando Angela capisce quello che è successo ne vediamo in sovrapposizione persino le immagini, immaginate ma reali. È su questa soggetivazione dell’oggettività che riflette maggiormente Kimi, legata al capitalismo della sorveglianza definito da Shoshana Zuboff. C’è sempre un occhio (videocamere, sguardi, webcam, sistemi informatici), c’è sempre qualcuno che guarda e ogni immagine riconduce a un punto di vista che non lascia scampo, come l’inquadratura dall’alto di Angela che si ricollega al suo tracciamento sulla mappa. Una minaccia che si può tenere a freno solo con la consapevolezza e riappropriandosi dei propri spazi.