Dentro un limbo
Un giardino di provincia che sembra una giungla. Un luogo dove non accade nulla e non si vede praticamente nessuno che diventa una sorta di spartiacque tra mondi interiori, onirici o immaginari. Un suicidio tenuto fuori campo e soprattutto fuori dall’intreccio che potrebbe dar vita a derive lynchane e invece resta a covare sotto pelle, dentro la serenità dei personaggi.
Gigi la legge, terzo film del friulano Alessandro Comodin, vive di questi contrasti, di un’irrequietezza che lo smuove in modo quasi impercettibile e che pure ne increspa la superficie di “commedia documentaristica” che lo stesso regista ha costruito.
Già dal protagonista si intuiscono crepe simili: Gigi è un vigile urbano della provincia di Venezia che perlustra la città e che si interessa di un vagabondo dopo il suicidio di una ragazza sotto i binari del treno. Non è un vero e proprio mistero, non in senso tradizionale – per questo i Cahiers hanno parlato di “prendersi gioco del poliziesco” – ma lo crea nel rapporto di chi guarda con il film e il personaggio, con il suo parlare mellifluo e sornione che può ispirare al contempo simpatia e diffidenza. Comodin è anche sceneggiatore di un film che si pone a metà tra la solare vitalità dell’esordio L’estate di Giacomo e la sperimentazione incompresa ma affascinante di I tempi felici verranno presto. L’idea di base di Comodin, vagamente affine a certe operazioni di Kiarostami, è di pedinare un uomo nei suoi giri quotidiani. Un uomo che per lavoro fa ronde, pattuglia un ambiente apparentemente vuoto, parla con i colleghi e qualche vicino delle cose comuni e banali della vita, ascolta e canticchia vecchie canzoni, ha problemi al lavoro e flirta con le colleghe. Una normalità che però si tinge presto di altre sfumature, che cercano di mostrare una realtà in cui il fondo di inquietudine emerge da dettagli, o ancora più sottilmente dal tono delle parole, delle voci, per arrivare alla suadente apertura notturna per cui giustamente Pier Maria Bocchi ha parlato di Weerasethakul, in cui il giardino dell’inizio diventa – grazie alla bellissima fotografia di Tristan Bordmann – un luogo tropicale, in cui sogni, desideri e ossessioni si confondono con la realtà.
È una parentesi, certo, perché il racconto i nel finale torna al sole, ai villini e al cemento estivo, ma porta a galla tutto quello che suggeriva inizialmente e rende più chiaro il percorso stilistico di un film in cui tutto è a vista, tutto pare espresso, chiaro e ripetuto come un’opera minimalista, e che invece Comodin sa sfumare “sceneggiando la realtà”, operando in modo magistrale sul fuori campo e il controcampo, sfruttando gli imprevisti della vita e della pratica documentaria per farne un terreno di sperimentazione sui toni, sulla capacità di ciò che non si dice e non si vede di incidere sullo sguardo e nella percezione istintiva del pubblico. Senza deluderlo né farsi beffe – come accadeva nel suo secondo film – anzi, dimostrando un paradossale amore, il rispetto di chi non sta giocando con lo spettatore, ma per lo spettatore, per rendergli il viaggio ancora più interessante e appagante.