Li conosciamo già (troppo) bene
Call My Agent – Italia, produzione Sky, è la versione italiana del format francese Dix pour cent. Arrivato da noi, su Netflix, con il titolo Chiami il mio agente!, cerca in modo ironico e quasi surreale di raccontarci il dietro le quinte dello star system.
La trama orizzontale mostra la vita di tutti i giorni di una delle più importanti agenzie per star della tv e del cinema; i protagonisti sono i dipendenti che un giorno vengono lasciati soli dal fondatore e si ritrovano a dover fare i conti con i capricci e le manie dei loro assistiti. A questo si aggiunge l’arrivo di una nuova ragazza che porterà con sé un segreto, e la lotta per impedire che l’agenzia venga comprata dagli stranieri.
Sei puntate in cui la trama verticale si muove seguendo Paola Cortellesi, Paolo Sorrentino, Matilda De Angelis, Pierfrancesco Favino, Stefano Accorsi e Corrado Guzzanti, e sfrutta la loro carriera per mostrare quanto sia assurda la vita di un divo. Tra attori che non riescono a scrollarsi di dosso i personaggi che interpretano (Favino), epic fail sui social (De Angelis), contratti con gli americani o a cui non si può rinunciare (Cortellesi e Guzzanti) si accenna una critica dovrebbe essere aspra e cattiva ma è troppo addolcita. Se si prende a paragone Boris, unicum nella serialità italiana in cui realmente si raccontano i nostri set senza sconti, la partita di Call My Agent è persa: non si riesce a colpire a fondo un sistema che ormai sta fallendo, con i soliti volti che appaiono nell’80% delle nostre produzioni e se anche Favino cerca di prenderci/si in giro, il suo essere succube dei personaggi che interpreta finisce in macchietta. Tutto sembra fin troppo edulcorato e il naturalismo della pur ottima sceneggiatura rischia di avere l’effetto contrario ed esaltare ancora una volta i suoi protagonisti. Si ride spesso certo, ma man mano che le puntate proseguono rimane l’amaro in bocca: cosa ci stanno raccontando se non quello che già possiamo immaginare? Come rendere “più umani” i nostri divi? C’è una paura di fondo che impedisce di abbruttire ciò che vediamo, quasi un pudore reverenziale che non parla di meritocrazia o successo raggiunto con fatica, e che dimentica che siamo difronte comunque a una situazione lavorativa sia per gli agenti che per gli assistiti. E un mestiere non è solo un modo per portare a casa la pagnotta, è un campo minato in cui l’individuo deve lottare e faticare altrimenti dobbiamo dare credito a chi ancora dice che occuparsi di spettacolo è “sempre meglio che lavorare”. Quanto ci manca il cinema degli anni ’60 in cui ancora si potevano vedere i personaggi agghiaccianti, per fare un esempio, di Io la conoscevo bene in cui il Gigi Baggini di Tognazzi dimostrava a che patti poteva scendere un attore pur di rimanere sulla cresta dell’onda o la cattiveria gratuita del talent scout di Manfredi. Quella era una vera e impietosa narrazione di ciò che può essere il mondo dell’industria dello spettacolo.
L’arma della commedia poteva essere quella giusta e dispiace che non si sia riusciti a smarcarsi dall’originale, perché l’idea è interessante e divertente e bisogna dare merito sia agli ottimi interpreti che alla scrittura asciutta e libera di Lisa Nur Sultan e Federico Baccomo che ammicca anche a una critica sociale sul ruolo delle donne al lavoro. Sara Drago impersona un agente lesbica e sprezzante che non ha paura a dimostrarsi anche fragile, ma che nel lavoro sa farsi rispettare senza scadere nello stereotipo della donna in carriera. Forse partendo da questo personaggio la narrazione poteva virare su un punto di vista più “spietato” e reale. In una serialità, la nostra, in cui i prodotti di commedia sono molto pochi, forse ci meritavamo qualcosa di “tragico” e grottesco ma siamo pur sempre davanti ad un prodotto pay per view e l’abbonato non vuole, forse, pensare troppo. Un’occasione mancata.