“Decidiamo noi chi è ebreo” (Joseph Goebbels)
Se c’è un cantore della storia contemporanea italiana quello è Marco Bellocchio. Il traditore, presentato al Festival di Cannes 2019, rientra tra quelle opere vischiose: ti rimane addosso non tanto con sgradevolezza ma con un senso d’inquietudine e di irreparabilità imminente.
Tommaso Buscetta (Pierfrancesco Favino), uno dei primi pentiti della storia italiana, è riuscito – inizialmente contro la sua volontà – ad aiutare il giudice Falcone (Fausto Russo Alesi) portando davanti al tribunale, anche della Storia, Cosa nostra e aprendo, così, la stagione di caccia della magistratura italiana.
Buscetta, uomo carismatico e viveur non molto acculturato, criminale tra le file semplici della mafia, riesce a cogliere la corruzione dello spirito del tempo dell’organizzazione di cui fa parte, dove la gloria, l’onore e una certa etichetta lasciavano spazio al sadismo di Totò Riina (Nicola Calì) e del clan dei Corleonesi. Dalla pace di Rio, dove risiedeva Buscetta con la terza moglie, alle stanze private degli incontri con Falcone che hanno dato il via, per il mafioso, a un percorso di redenzione dopo il tentato suicidio, le torture della polizia e la strage che Riina ha inferto alla sua famiglia. Bellocchio tratteggia un eroe e un antieroe che provano a smontare un sistema perché tanto “si muore sempre”, e se bisogna morire almeno sia per una causa, giusta come per Falcone, o meno, per una questione personale, come per Buscetta. Abbiamo la biografia e il racconto storico, ma anche la solitudine infinita di Buscetta, condannato come l’Olandese Volante a spostarti in eterno, a vivere sotto la protezione testimone dell’FBI, mentre la mafia, e non solo, continuerà a tormentarlo fino all’ultimo respiro.
La ricostruzione che fa Bellocchio del maxiprocesso è teatro puro: una serie di personaggi secondari e primari, assassini e criminali, increduli del loro destino, mentre il pool antimafia aggiungeva un nuovo capitolo alla guerra civile della mafia e dava la possibilità a Buscetta di vendicarsi o, forse, di farsi giustizia. “Ho più paura dello Stato che della Mafia”, e qui Buscetta diventa come l’Aldo Moro tanto caro al regista, impossibilitato anche solo ad avvicinarsi al Castello kafkiano rappresentato qui, e non solo, dalla figura di Andreotti (Pippo Di Marca), l’unico in grado di arginare il maremoto politico scatenato dal giudice Falcone e da Buscetta stesso. Quando il ministro della propaganda Goebbels chiamò in un colloquio Fritz Lang per usarlo come regista del partito nazista, nonostante le origini ebree di Lang e le perplessità del regista, Goebbels rispose: “Decidiamo noi chi è ebreo”. D’altronde è sempre stata una farsa tenuta su con dei fili trasparenti da un branco di criminali; così Bellocchio dipinge amaramente, senza patetismo, il disfacimento completo del ruolo dello Stato nella coscienza di una società allo sbando. Anche lo Stato decide chi è mafioso. Uno Stato che modella pensieri e corpi tra l’ottusità della magistratura, l’ideale cieco dei nostalgici di Cosa nostra e il sangue di vittime senza nome.
Buscetta è un assassino, per quanto possiamo creare un legame emotivo con la via crucis del pentito, per quanto sia un personaggio tragico, a tratti inaccessibile, il regista di Esterno Notte, ci ricorda, come un memento mori, quale spietato omicida fosse realmente (non ammetterà mai una serie di delitti compiuti in Italia e in Brasile). Il fascino di Tommaso Buscetta risiede nell’essere una Cassandra contemporanea, un morto che cammina, e come tutti i morti – consapevoli di esserlo – totalmente capace di vedere, a differenza degli altri, un tragico orizzonte degli eventi nel destino dell’Italia intera.
Il traditore. Il traditore. Il traditore. Il traditore. Il traditore. Il traditore. Il traditore. Il traditore.