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In questo numero

Speciale J. Edgar

Speciale J. Edgar

9 Gennaio 2012
Speciale

lunedì 9 gennaio, 2012 | di Eleonora Degrassi

Voto autore:

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Apologia di un Mito imperfetto
“Ciò che determina il retaggio di un uomo spesso è ciò che non si vede”. Con queste parole J. Edgar descrive se stesso, l’uomo e l’intera nazione.J. Edgar, il nuovo e atteso film di Clint Eastwood (sceneggiatura del premio Oscar Dustin Lance Black per Milk), è un biopic duro, intenso e cupo, un classico film alla Clint in cui si racconta l’imperfezione del mondo attraverso l’ascesa di J. Edgar, capo dell’FBI per circa mezzo secolo, l’America proibizionista sempre al limite della crisi.

Si esaminano le fragili fondamenta del mondo e del protagonista, raccontando vittorie pubbliche e sconfitte private, forza del Capo e fragilità dell’uomo senza moglie, amici, ma con una madre/Judi Dench ingombrante e castrante. Se alla luce del sole Hoover appare ligio al dovere, autoritario, irreprensibile, nell’ombra invece quel “ciò che non si vede” fa emergere il Capo bambino – che si fida solo della mamma – “imperfetto” nella balbuzie e nel rapporto con Clyde Tolson/Armie Hammer, suo vice. Eastwood sviscera la costruzione del Mito, Eroe americano, saltando dalla giovinezza alla vecchiaia in cui si sente il peso degli anni, della menzogna, della Storia, otto i presidenti con cui Edgar collabora, varie le politiche con cui fare i conti, ma, mentre le macchine presidenziali passano sotto la sua finestra, lui si trincera dietro al ruolo e alla maschera che lo proteggono dal mondo esterno. Tra ossessione per la pace del paese, azioni al limite della legalità, intercettazioni, diventa il terrore di tutta l’America, del Comunismo, dei gangster, un personaggio tanto mitico quanto scomodo, che non accetta incompletezza e difetto. Nella sua scalata al successo o discesa agli inferi Tolson e Helen Gandy/Naomi Watts, sua fedele segretaria, lo accompagnano, accolgono tutto di lui, che invece li tratta come sottoposti, con freddo distacco, amara superiorità. In una delle scene più intense del film, il braccio destro, isterico, deluso, urla, mostrandosi “scalzo”, dimenandosi in un’ipertrofia della sensibilità che si scontra con l’impassibile Edgar che incassa le ingiurie dell’unica persona che abbia mai amato, ordinando di ricomporsi, rientrando nei ruoli. Eastwood ci invita a partecipare all’invecchiamento del grande Capo, allo sfaldamento dell’ingenuità di un Paese che si esemplifica col rapimento di Lindbergh, capro espiatorio del “male” e della corruzione del mondo – come in Changeling – e questo lo fa con occhio sincero e franco. J. Edgar è un film da vedere e scoprire; contano poco il trucco “isterico” e esagerato dei personaggi invecchiati, l’analisi approfondita del caso Lindbergh rispetto ai “Grandi Eventi” perché alla fine ti restano l’epopea di un uomo, di una nazione, ma anche quel bacio rubato, quel vestito da donna indossato, tutta l’intensità di un film che non ha paura.

 

lunedì 9 gennaio, 2012 | di Chiara Checcaglini
Voto autore:
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Gli infami e gli eroi
Clint Eastwood prova a dare voce all’esigenza di raccontare i retroscena che hanno reso gli Stati Uniti ciò che furono e ciò che sono; lo fa mettendo in scena la vita di John Edgar Hoover, direttore dell’FBI che ne piegò le regole e i limiti fino a renderlo un dipartimento potente, integerrimo e produttivo. L’ossessione del J. Edgar di Eastwood e DiCaprio è dimostrare all’americano medio lassista la giustezza dei propri metodi e delle proprie posizioni, dichiarando una “guerra alle idee”, impermeabile ai cambiamenti dei diversi presenti che Edgar si trova a vivere in quarant’anni di carriera tra il gangsterismo e Nixon presidente.
Sulla dicotomia tra “eroe” e “infame”, tra bene e male senza zone grigie e senza insicurezze, Edgar pretende di agire direttamente, imponendosi con la contrapposizione tra due immaginari. Eastwood lo dichiara esplicitamente collocando il cinema – rito collettivo, rito mondano – all’interno del film: da un lato amplificatore del sentire sociale, dall’altro costruttore di mitologie. E J. Edgar apparentemente riesce a mutare di segno l’immaginario americano, a sostituire l’eroico criminale con l’eroico “g-man”: James Cagney dà il volto ad entrambi, sottolineando la facile interscambiabilità di ruoli e miti che Edgar non vede, o non vuole vedere, perché non è in grado di leggere i segni della realtà.
Eastwood è cristallino (fin troppo forse) nel dipingere un uomo che vive autoconvincendosi, terrorizzato dalla debolezza e dalla propria natura (di essere umano fragile, anche se nel film ciò corrisponde  prima di tutto a quella di omosessuale) perché altri – la madre – gli hanno imposto una forma senza altra possibilità; con l’espediente dell’autobiografia ri-narra la propria realtà, la “cinematografizza” (non per niente quando accarezza l’idea di una moglie sceglie un’attrice) inventandosi protagonista dinamico anche di ciò che gli riusciva peggio, ovvero il momento del faccia a faccia e dell’azione. Ancorato ad una famiglia lavorativa ristrettissima che comprende una figura materna comprensiva, Helen Gandy, e un amore fedele e imperituro, Clyde Tolson, Edgar finge una completezza che Eastwood demolisce impietoso, non solo attraverso le parole dell’inascoltato Clyde, ma anche con una regia spesso crudele, quando indugia sulle isterie in albergo, sul fare dittatoriale, sull’arroccamento senile tra le proprie convinzioni o sul corpo decaduto nel finale. Tra difetti trascurabili, come l’imperfezione delle “maschere”, ed altri meno, come l’occasione mancata di un approfondimento sulla mania dell’intercettazione, J. Edgar è il racconto di un uomo non buono e non giusto, il cui lascito non è la fede nel bene per la nazione, ma l’asservimento all’informazione, al pregiudizio e alla minaccia per controllare e distruggere nemici potenziali. L’inasprirsi della spregiudicatezza politica suggerito alla fine dalla presenza di Nixon non può oscurare il ritratto di un personaggio colpevole, con cui l’empatia è difficile, se non impossibile. Ed è giusto così.

 

lunedì 9 gennaio, 2012 | di Andrea Moschioni Fioretti
Voto autore:
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Il potere della menzogna
Un gioco in maschera, per far ricordare agli americani e al mondo la scontata ma sempre utile lezione che dal passato e dagli sbagli si deve continuamente imparare. Non una biografia di J.Edgar Hoover, ma una mitologia cinematografica il nuovo film di Clint Eastwood J.Edgar, che attraverso le parole del capo storico dell’FBI ci ripropone ancora una volta la sua personale rilettura della storia americana del ‘900. A Eastwood poco importa di essere fedele allo Storia, ma allo stesso tempo non bara e non “trucca”, la sua è una specie di rielaborazione finalizzata solo al racconto del lavoratore e dell’uomo Hoover e di chi con lui ha contribuito a farlo celebrare come uno degli uomini più potenti e influenti d’America. In una cronaca  che ricorda per la struttura, che alterna il presente al passato, C’era una volta in America di Leone, scopriamo l’Hoover fragile e obbligato a fingere sulle sue imprese mai realizzate e a conquistare tutto con la forza, per non perdere la stima e il rispetto degli altri, ma soprattutto l’uomo privato che mentendo a se stesso ha agito sempre seguendo una visione di fedeltà alla Nazione. Eastwood realizza il suo film più riuscito degli ultimi anni, dopo Gran Torino, in cui, in qualche modo, c’è un sunto della sua parabola cinematografica sia dietro che davanti la macchina da presa, temi quali le sfide da vincere, la famiglia, la memoria storica e la vecchiaia, in un composto che rasenta l’imitazione non caricaturale ma di ideale verosimiglianza. L’”oscurità” e i fantasmi sono protagonisti, insieme ad una ricostruzione d’epoca che non sa di esclusivo valore simbolico ma è minuziosamente credibile, e un makeup che non è aiutato dalle finzioni della computer grafica ma, alla “vecchia maniera”, è solo trucco che gli attori indossano come maschera. Attraverso una regia pulita e essenziale Eastwood ci regala un racconto che attraversa le pagine più nere della storia americana del novecento senza patetismi o furbizie di sceneggiatura, non chiede di patteggiare con Hoover, anzi ci ricorda di come fosse un uomo gretto e bugiardo che nascondeva la sua omosessualità mentre denigrava e cercava di annientare chi avrebbe potuto superarlo in popolarità e fama. A dar corpo al fantasma di Hoover, Clint ha chiamato Leonardo Di Caprio, la sua maschera è quella più convincente insieme alla mamma Judi Dench, nella sua prova attoriale più matura e doverosamente da premiare; il corpo si scolla dall’attore per diventare quello di Hoover in ogni suo tic e forma, una prova che ricorda The Aviator ma che la supera per intensità e che nelle sequenze famigliari e private rasenta la perfezione in mimesi e bravura. Un film sull’America e i suoi fantasmi quindi J.Edgar, ma anche un film sull’amore che Hoover provava per la Nazione, la madre e il compagno di una vita Tolson, dove un semplice fazzoletto si fa allegoria di una passione struggente, un elemento suggestivo e un’emozione che solo il buon vecchio Clint avrebbe potuto regalarci. Pur non essendo il suo capolavoro J.Edgar rimarrà nelle menti come espressione filmica del pensiero eastwoodiano e delle ferite mai curate del popolo americano, non poco per una semplice biografia!

 

lunedì 9 gennaio, 2012 | di Francesco Grieco
Voto autore:
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Mai abbassare la guardia!
È un film sulla memoria, J.Edgar. Sulla memoria di un uomo e, solo in minima parte, su quella di una nazione. Sulla memoria di un uomo-nazione, John Edgar Hoover, a capo dell’FBI per decenni, detentore di un potere enorme, inquietante. Ossessionato dalla ricerca paranoica di un nemico interno, Hoover prima dà la caccia ai comunisti, poi ai gangster, infine se la prende con Martin Luther King, non capendo che, in realtà, è dal proprio senso di colpa che deve liberarsi. La ricostruzione storica, grazie a collaboratori di prim’ordine, dal direttore della fotografia Tom Stern alla costumista Deborah Hopper, è sicuramente efficace, ma la regia di Eastwood, pulita e sapiente come sempre, sembra porsi volutamente, con naturalezza e dedizione, al servizio di uno straordinario, impressionante Di Caprio, che non esita a nascondere corpo e lineamenti dietro un trucco davvero pesante. Tra le due dimensioni, quella privata e quella pubblica, Eastwood, sia pure senza morbosità, sembra quindi più interessato alla prima, sin dalla scelta del titolo, che esclude il cognome del protagonista e richiama la sequenza-chiave in cui Hoover, in un negozio di abbigliamento, così si firma per distinguersi da altri clienti omonimi. Proprio il desiderio di diventare qualcuno, di distinguersi appunto dalla massa, caratterizza infatti il personaggio di Hoover, sin dagli anni giovanili. Il progetto autoriale di Eastwood di raccontare una storia alternativa, crepuscolare e anticonformista, degli Stati Uniti, attraverso la rivisitazione e l’aggiornamento dei generi classici – in questo caso il biopic, qui depurato da quel sentimentalismo che lo rende spesso indigesto – passa inevitabilmente in secondo piano rispetto alla vita del protagonista, raccontata dal punto di vista dello stesso Hoover. Perciò, ad eccezione della vicenda Lindbergh e del breve, ma significativo, faccia a faccia tra Bob Kennedy e Hoover – l’America buona e l’America cattiva a confronto? – il film, alternando il passato al presente con semplici stacchi di montaggio e un utilizzo non invadente della voce fuori campo, viaggia nei ricordi personali di Hoover, concedendosi, nella parte finale, perfino un accenno di love story.

J. Edgar [Id., USA 2011] REGIA Clint Eastwood.
CAST Leonardo DiCaprio, Armie Hammer, Naomi Watts, Josh Lucas, Ed Westwick, Lea Thompson, Dermot Mulroney, Jeffrey Donovan, Stephen Root, Geoff Stults, Judi Dench, Ken Howard
SCENEGGIATURA Dustin Lance Black. FOTOGRAFIA Tom Stern
Biografico, durata 137 minuti.

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