Esorcizzare l’anima degli Stati Uniti
L’esorcista, capolavoro di William Friedkin che ha contribuito alla rivalutazione del genere horror avvenuta nel corso degli anni Settanta, compie 50 anni.
Una cifra tonda alla luce della quale riscoprire il film che ha anche il merito di aver dato il via a una lunga serie di opere incentrate sulle possessioni demoniache, l’ultima in arrivo al cinema il prossimo ottobre con una trilogia sequel proprio del film di Friedkin.
Eppure, nonostante i tanti tentativi di replicare il successo dell’originale – molti dei quali affidatisi a fin troppo facili trucchetti per generare paura – L’esorcista rimane ancora oggi insuperato nel suo saper costruire una crescente tensione, che si insinua fin sottopelle negli spettatori. Forse i suoi effetti speciali non sono più in grado di incutere nelle nuove generazioni il terrore che incutevano all’epoca della prima distribuzione in sala, ma la fonte del valore del film è, notoriamente, da ritrovarsi altrove. Ma andiamo con ordine. La vicenda, come noto, ruota intorno alla dodicenne Regan, la quale inizia a manifestare preoccupanti segni di malessere. La madre single, Chris MacNeil, le prova tutte per cercare di aiutare la figlia, arrendendosi infine all’idea di dover sottoporre la bambina a un esorcismo. Per compiere l’atto viene chiamato il sacerdote Lankester Merrin, il quale, insieme a padre Karras, sembra essere l’unico a comprendere davvero il potere e la pericolosità dell’entità che ha preso possesso della giovane. Risulta interessante notare – alla luce degli odierni film di questo genere, dove l’orrore si manifesta sin da subito – come per assistere all’esorcismo vero e proprio della giovane Regan bisogna aspettare l’ultima mezz’ora di film. Si arriva soltanto a quel punto all’apice del percorso intrapreso per assistere, con la curiosità generata dal timore, alla manifestazione demoniaca. Prima di giungere a quel punto, però, si è dunque costruito un intero “racconto preparatorio”, arricchito da giochi di regia che anticipano determinati risvolti, da accurati approfondimenti psicologici dei personaggi e – soprattutto – da allegorie sullo stato di salute degli Stati Uniti e dei suoi abitanti.
Sappiamo infatti essere molteplici le chiavi interpretative con cui è stato letto e riletto L’esorcista nel corso del tempo. Gli studi sul suo valore politico hanno evidenziato il forte rapporto del film con il periodo in cui è stato prodotto. Parliamo di anni caratterizzati dall’omicidio di JKF, dalla guerra in Vietnam, dallo scandalo Watergate e dai movimenti per i diritti civili. Anni in cui il popolo statunitense sembra aver perso i propri punti di riferimento, sempre più smarrito in un caos urbano che lo stesso Friedkin ha saputo raccontare con un altro suo grande capolavoro, Il braccio violento della legge. In questo contesto, dunque, il male può nascondersi ovunque.
Fondamentali sono però stati anche gli studi sul film legati alla psicoanalisi e alla trasformazione della figura femminile in rapporto ad una società patriarcale. Ciò che accade a Regan nel corso del film, e il suo contrapporsi alle due figure clericali, può infatti essere ricollegato ai movimenti femministi che in quegli anni rivendicavano con rinnovato vigore l’emancipazione femminile. L’esorcista contiene tutto ciò e ancora oggi ne è un manifesto particolarmente significativo, andando dunque ben oltre la stretta etichetta di “film horror”. Ma prima di tutto ciò, L’esorcista è un’opera fortemente rivolta a indagare il concetto di fede. Una fede che nel corso di tutto il film vediamo messa in dubbio dallo stesso padre Karras, il quale proprio nel momento in cui, provato dalla morte della madre, sta per abbandonarla, si ritrova a doverla rinvigorire per poter sostenere l’esorcismo di Regan. Attraverso lui si costruisce dunque questa continua lotta tra il bene e il male, uno scontro dal quale però non derivano consolanti risposte. Ancora oggi, l’ambiguo finale voluto da Friedkin racchiude infatti l’anima di quei difficili anni per gli Stati Uniti.