Psicoanalisi di una Nazione
Roma, 1986. Una donna cammina su un tetto minacciando di saltare giù. Da una finestra del vicino liceo, uno studente osserva la scena fino a quando il suo sguardo non viene catturato dalla presenza di un’altra donna. Tra Andrea e Giulia, sarà amore a prima vista e l’inizio di una passione travolgente.
Diavolo in corpo comincia con un’immagine ricorrente nel cinema di Marco Bellocchio per negarla e andare oltre. Come se quel “salto nel vuoto” mancato spianasse inevitabilmente la strada a una nuova fase, a un nuovo cambio di prospettiva e paradigma.
Del resto, erano il Paese e la società stessa, in quegli anni, ad attraversare un momento di profondo mutamento. Un cambiamento epocale che non poteva non essere intercettato da uno degli autori che meglio avevano saputo raccontare, per vie traverse, il proprio tempo. In questo, il film è perfettamente coerente con la poetica del regista pur rappresentando uno scarto sostanziale, l’ennesimo tentativo di scrollarsi di dosso l’esordio de I pugni in tasca contrapponendogli un’opera altrettanto “scandalosa”, sebbene più fredda e ragionata. Primo di quel gruppo di film che caratterizzeranno la cosiddetta “svolta psicanalitica”, quelli cioè in cui l’influenza dello psichiatra e psicoterapeuta Massimo Fagioli (cui il film è dedicato) è più evidente, è infatti come se Diavolo in corpo volesse far ordine nell’universo tematico del suo autore dando vita a una storia esemplare, ai limiti del trattato di psichiatria. Molto liberamente ispirata al romanzo omonimo di Raymond Radiguet, è così che la storia d’amore al centro della vicenda si lega qui indissolubilmente a un nuovo contesto storico. Nell’Italia del post-terrorismo, tra crisi delle ideologie, spaesamento etico e brigatisti pentiti, prende vita il dramma di Giulia, figlia di una vittima degli anni di piombo e promessa sposa proprio a un ex terrorista. Una vita vissuta dalla donna come una prigione fatta di imposizioni e ruoli ben definiti, cui tenta di fuggire abbandonandosi alla sua nevrosi e all’amore disperato per Andrea. È proprio attraverso questa passione irriducibile che si può vedere il riflesso dei profondi mutamenti in atto nel Paese, il rifiuto, da parte dei due amanti, di un intero mondo (quel Sistema che il pentito Pulcini vorrebbe abbracciare e che il padre di Andrea difende) ma anche delle armi con cui fino a quel momento vi si era opposti (la violenza contro gli altri o contro se stessi). Sono forze inedite, del resto, quelle che entrano qui prepotentemente in gioco: le forze dell’inconscio e dell’eros, del desiderio e della passione. È in quest’ottica che il ritratto di una generazione “disimpegnata” come quella di Andrea acquista una sua specificità, rendendo persino meno gratuita di quel che sembri la celeberrima sequenza di sesso orale non simulato tra i due interpreti. Simbolo di una passione capace di andare oltre il pregiudizio e la morale comune, più forte di qualsiasi fede o ideologia. E se il tutto tradisce una programmaticità di fondo evidente, poco importa. Diavolo in corpo non è, come invece è stato spesso liquidato, un passo falso nella carriera del regista. Al netto di uno svolgimento discontinuo e di qualche interpretazione poco convincente (Pitzalis), il film dimostra una carica emozionale capace, attraverso squarci di un’energia inquietante, di andare oltre la sua struttura a tesi, riproponendo temi e ossessioni ricorrenti (il conflitto con le figure genitoriali, il disturbo mentale usato come grimaldello per scardinare le convenzioni borghesi) da una prospettiva inedita, fino a tracciare, quasi incidentalmente, l’affresco unico e perturbante di una società in piena ridefinizione.