Slippery slope
Si è conclusa da poche settimane la seconda stagione della serie targata Showtime che, in virtù di numerosi premi ricevuti nel 2015, vedeva nel proprio rinnovo la necessità di rispondere a numerose attese, sia sul piano del plot e della costruzione dei personaggi, sia su quello della struttura e degli espedienti narrativi attraverso cui aveva raggiunto il proprio successo.
I giudizi e le letture di The Affair non potranno mai essere disgiunti dalla capacità degli autori di costruire una mirabile lezione sulla soggettività del punto di vista, portando alle estreme conseguenze la divergenza percettiva e immaginativa dei personaggi di Noah e Alison, accomunati dagli eventi ma eternamente divisi dalla loro maniera di ricordarli o rielaborarli. Se la prima stagione della serie verteva su una ormai consolidata lettura doppia della vicenda, questo nuovo blocco di racconto sceglie, forse per ovviare a una crescente prevedibilità strutturale, di allargare il proprio esperimento ai comprimari della serie, Helen e Cole, dimostrandoli, anche nel ridotto screentime loro concesso, necessari non solo a dare forza e problematicità dell’intera parabola drammaturgica, ma soprattutto a farsi specchio, riflesso decisivo, per la modellazione dei personaggi principali. Se l’ex moglie di Noah, grazie all’interpretazione maiuscola di Maura Tierney, tocca vette di dolorosa esasperazione che condensano in sé la falla del tradimento e l’ansia irrisolvibile di un riscatto, il personaggio di Joshua Jackson al contrario sembra l’unico ad attraversare la storia all’insegna di un’auspicabile purificazione, determinando il ritratto probabilmente più risolto entro la galleria dei problematici esseri umani che abitano The Affair. Quanto a Noah e Alison, la loro relazione si conferma paradigma aggravato della nostra incapacità di riconoscerci felici: l’uno, baciato dal successo per il romanzo finalmente pubblicato, non coglie più il confine tra valore e libertà, precipitando in una spirale di ingestibile smarrimento; l’altra, incessantemente esposta alle tensioni che attraversano la sua pelle, non può trovare pace neppure nella speranza di una nuova maternità. Procedendo di punto di vista in punto di vista, la serie presto si concede alcuni episodi sequenziali dove, alla visione parallela degli eventi, si preferisce la ricostruzione dei fatti che fanno da fulcro al tempo presente da cui tutto il resto viene narrato: la morte del fratello di Cole, già annunciata dalla prima stagione, si dipana come mistero giudiziario senza possibili vie d’uscita, fino a quando, nell’episodio conclusivo, gli autori si concedono un mirabolante colpo di scena che sorprende lo spettatore e rilancia il format. Inutile dire che, entro una cornice di buone o buonissime intenzioni, la banalità e gli schemi della soap opera siano sempre dietro l’angolo: a salvare il prodotto è l’intransigenza del suo pessimistico approccio all’esistenza, scivoloso piano inclinato che trasforma ogni dubbio o contraddizione in spregiudicata valanga emotiva. Non siamo fatti che di desideri impulsivi e scarti irrazionali, la parola è una maschera per difenderci dall’instabilità irrisoria di ogni legame o progetto di vita. Questa instabilità, finché la ferita brucia, torna sempre a galla.
The Affair [id., USA 2014 – in corso] IDEATORI Sarah Treem, Hagai Levi.
CAST Dominic West, Ruth Wilson, Maura Tierney, Joshua Jackson.
Drammatico, durata 60 minuti (episodio), stagioni 2.