INEDITO, USA 2010
Walkers
“There’s no place like home” assicurava la piccola Dorothy. I protagonisti di Yellowbrickroad non potrebbero essere più d’accordo, ma non ci sono scarpette magiche disposte a portarli indietro. Nell’esordio di Andy Mitton e Jesse Holland i riferimenti al Mago di Oz figurano soltanto in versione corrotta, chiavi perverse di un percorso scellerato.
Il “sentiero di mattoni gialli” non conduce dunque alla città di smeraldo, ma ad un bosco che in tempi remoti ha inghiottito l’intera popolazione del Friars, restituendone una parte orribilmente uccisa. A più di mezzo secolo dall’accaduto l’immancabile gruppo di scettici curiosi decide di ripercorrerne le tracce in cerca di brividi o di risposte. Inutile dire quali li attendono.
Tiriamo subito un sospiro di sollievo: non si tratta dell’ennesimo mockumentary che si protrae per l’intero film, sbandierando la camera a mano come la scoperta dell’acqua calda. Yellowbrickroad si avvale di riprese tutt’altro che canoniche e, quando di camera a mano si tratta, riesce a renderla perturbante senza che sembri tarantolata. La sceneggiatura supera il mero espediente per attingere ad un nutrito sottobosco di leggende, pazientemente raccolte dagli autori e miscelate in un racconto ricco di suggestioni eterogenee. La storia di un villaggio eschimese, abbandonato inspiegabilmente dai suoi abitanti con tanto di viveri e animali domestici, suggerisce l’idea che innesca la vicenda, richiamando al contempo la fuga dalla civiltà in favore della wilderness. Come in Un tranquillo week-end di paura (Boorman, 1975) quest’ultima perde ben presto le sue attrattive rivelando insidie inattese e una natura sottilmente malvagia. L’ostilità dichiarata di ignote presenze e il susseguirsi di fenomeni raccapriccianti esasperano il gruppo scatenandone pulsioni e tensioni sotterranee, mentre la progressiva deriva verso la follia impregna l’ambiente di un ripugnante livore.
E’ soprattutto la fotografia di Michael Hardwick a rendere la misura dell’ abbrutimento, con toni sempre più tetri e luci fredde e smorte. La regia alterna impassibili campi lunghi a soggettive inquiete e deliranti, avvalendosi di un sonoro straordinariamente efficace nella costruzione di un’angoscia palpabile.
Ne deriva un’atmosfera profondamente inquietante, ben sostenuta dalle performance di un cast perlopiù sconosciuto, ad eccezione di Anessa Ramsey (The Signal) e di Cassidy Freeman (Smalville), qui in veste di attrice e produttrice assieme al fratello Clark.
Prigionieri di un luogo senza tempo, che annulla e trascende le coordinate umane, i malcapitati si inabissano in una spirale di insensata autodistruzione, schiavi dell’inutilità del proprio avanzare.
Il sentiero comprende la vacuità delle loro ambizioni, il tracciato insignificante delle loro esistenze, e li costringe impietosamente a prenderne coscienza. Proprio come il cinema, in cui tutto ha avuto inizio e in cui- come ne Il seme della follia (Carpenter, 1994) – li attende un bizzarro finale.