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A.I. – Intelligenza artificiale (2001)

sabato 19 Aprile, 2014 | di Edoardo Peretti
A.I. – Intelligenza artificiale (2001)
Film History
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SPECIALE CYBERPUNK/MEMORIE SINTETICHE
Dolorosa utopia
A.I. – Intelligenza artificiale, che Steven Spielberg realizzò sulla base di un progetto incompiuto di Stanley Kubrick ispirato a Pinocchio, contiene un po’ il meglio e un po’ il peggio dell’autore di Duel e di E.T., diventando quasi una summa della sua carriera, e un riassunto delle sue opere migliori come di quelle più retoriche e fastidiose.

Ritroviamo gli eccessi retorici e patetici che diventano diabetici, ma anche la grande capacità di narrare e rappresentare; ritroviamo quella fantascienza sentimentale e infantile della cosiddetta “poetica della meraviglia” capace, a seconda delle dosi di sentimentalismo, sia di irritare sia di essere decisamente emozionante; ritroviamo la centralità dell’istituto familiare in cui Spielberg ha sempre creduto,mediacritica_a.i_intelligenza_artificiale1a l’attenzione dedicata ai bambini e alle vicende che determinano la loro dolorosa formazione e la loro crescita, così come il grottesco, il senso di minaccia e d’angoscia delle opere della sua prima parte di carriera (e anche di buona parte di quelle che realizzerà dopo A.I.). Insomma, guardando A.I. ci troviamo di fronte a tutto Spielberg e, come se stessimo facendo un’escursione su un altopiano, passiamo presto da vette di grande cinema a crepacci dalla retoricità al limite dell’imbarazzante. Del resto, A.I. è un film fin dalle intenzioni dei due autori gigantesco, che Spielberg rende dichiaratamente eccessivo in ognuna delle sue componenti, quasi usando come scusa di questo l’eredità kubrickiana. E l’operazione, al netto dei momenti più ingenui sopra accennati, funziona: la storia del primo bimbo robot capace di amare davvero e della sua ricerca, lunga duemila anni, della fata turchina che lo trasformi in bambino vero, è raccontata con un senso di dolente e malinconica disperazione, solo in parte mitigata dall’affetto dimostrato verso il giovane protagonista e dalla retorica spielberghiana. Il dispositivo identico all’uomo fino al profondo dei sentimenti diventa un’utopia impossibile, un’enorme illusione di eternità creata da uno scienziato sognatore e ferito in maniera irreversibile da un lutto. Il giovane protagonista è la vittima di questa utopia: identico a noi ma ontologicamente e irrimediabilmente diverso, sbatte contro l’incomprensione umana, e soprattutto è vittima dell’idea di volere rendere eterno quello che trova suo compimento in ciò che si può definire un battito di ciglia della Storia. Non a caso a renderlo per un giorno felice, in un finale struggente e straziante, ci pensano l’acquisita consapevolezza della caducità della vita (“quell’attimo era l’eterno che cercava”, dice più o meno il film) e la capacità delle immagini (il cinema?) di reinventare e creare meraviglie e felici e dolci illusioni, capaci, quelle sì, di bloccare il tempo e di rendere reale un’utopia.

A.I. – Intelligenza artificiale [A.I. – Artificial Intelligence, USA 2001] REGIA Steven Spielberg.
CAST Haley Joel Osment, Monica Swinton, Jude Law, William Hurt, Brendan Gleeson, Robin Williams (voce), Jack Angel (voce), Meryl Streep (voce).
SCENEGGIATURA Brian Aldiss, Steven Spielberg (da un’idea di Stanley Kubrick).
FOTOGRAFIA Janusz Kaminski. MUSICA John Williams.

Fantascienza, durata 144 minuti.

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