L’inverno del nostro scontento
“I think there’s something wrong with me. I don’t know what’s real anymore”, così Ally (Sarah Paulson), protagonista di American Horror Story: Cult, racconta il suo malessere, la sua paura incondizionata di buchi, clown e sangue, che si è espressa con tutta la forza possibile dopo l’11 settembre 2001 e che ora esplode nella notte dell’8 novembre 2016 (elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America).
Ryan Murphy, ideatore della serie, ha cercato di rappresentare angosce e fobie che tormentano l’Uomo infilandosi in quel grumo di paranoie, incubi e sangue. Case infestate, mostri, clown sono stati gli strumenti con cui Murphy ha eviscerato l’essere umano rendendolo infragilito e tremante, ma Cult fa un passo in più, almeno nell’intenzione: il terrore deriva dalla realtà, l’elezione di Trump. Il neoeletto è l’horror più orrorifico possibile e lo show parte proprio da due visioni opposte sull’evento: da una parte Ally, piangente e disperata per la vittoria del tycoon, dall’altra Kai, colto in un piacere orgasmatico per la stessa. Questi sono giorni bui in cui gli uomini cavalcano paura, disagio sociale e disparità, cavalli imbizzarriti che scalciano e disarcionano; il fantino di questa folle giostra è Kai (Evan Peters), una fata turchina malvagia e spietata che punta al controllo delle masse, umiliando, denigrando, uccidendo le minoranze, il diverso, chi non serve. Kai è misogino, razzista, fascistoide tutto teso al perseguimento dei sui scopi criminali (per fare ciò si candida a consigliere comunale e vince), e proprio per il culto della personalità crea una setta circondandosi di disperati. Il culto diventa centro e spiega quanto un capo sia in grado di plasmare le menti, incanalare le energie e diventano funzionali le interpretazioni da parte di Peters, di Charles Manson, David Kores, Jim Jones, Andy Warhol ma ciò appesantisce la narrazione distogliendo l’attenzione dall’idea principale. Kai è rappresentazione non solo del capo di Stato, dell’americano pro-Trump, ma è anche specchio dell’anima malata di un corpo sociale che si sta disgregando, di una nazione piena di contraddizioni. Sul versante opposto del villain c’è Ally, lesbica, moglie e madre, democratica, anti-Trump, è la nemica perfetta del leader. È, prima, vittima delle sue fragilità, poi, quando ha perso tutto, si dimostra guerriera che oscilla tra un lato e l’altro della barricata, ordisce trame per non perdere il figlio, per vendicarsi, per salvare il mondo. La contrapposizione Kai-Ally fa riferimento a quella Trump-Clinton e più in generale a quella uomo-donna, (il flashback di Valerie Solanas con il suo Manifesto SCUM e le dinamiche ad esso relative all’interno della serie) che pur avendo un valore esplicativo diventa pesante fardello se troppo insistito. American Horror Story: Cult sarebbe potuta essere una grande stagione, ne aveva tutti i requisiti, ma come spesso capita a questa serie si è persa avviluppandosi su se stessa.
American Horror Story: Cult [id., USA 2017] IDEATORE Ryan Murphy.
CAST Sarah Paulson, Evan Peters, Cheyenne Jackson, Billie Lourd, Alison Pill.
Horror, durata 60 minuti (episodio), stagione 7.