Il dibattito sì
La parola “romanzo” sta lì a dire molte cose. La prima e più esplicita: la filiazione diretta da Pier Paolo Pasolini, da quell’asserzione di consapevolezza, rivoluzionaria nella sua basilarità, con cui inizia il più famoso dei suoi Scritti Corsari.
Vuol dire anche che, a 43 anni di distanza, manca una verità incontrovertibile – più sulle morti di Pinelli e Calabresi, che infatti avvengono fuoricampo, che sulla Strage di Piazza Fontana, a ben vedere – e quindi la messa in scena di quegli avvenimenti esige obbligatoriamente una parte di finzione, di immaginazione. Ma romanzo vuol dire anche raccontare, e raccontare significa costruire un immaginario, metterlo in parole, farlo vedere, trascinarlo fuori dall’ombra del silenzio, riaprire il dibattito. Il merito del film di Marco Tullio Giordana è prima di tutto questo: raccontare. Con gli inevitabili scarti della memoria e con il collante della finzione. Mettere in scena il buco nero esploso il 12 dicembre 1969, che ha risucchiato una democrazia troppo giovane e inesperta dentro una strategia della tensione le cui conseguenze ci ingabbiano ancora oggi. Il regista milanese si è costruito un’autorialità sull’impegno civile (da Pasolini. Un delitto italiano a La meglio gioventù, passando per I cento passi) e non si può fare a meno di rimproverare, a lui e ai suoi sceneggiatori Rulli e Petraglia, eccessi didascalici, picchi di retorica, qualche scelta troppo facile. Romanzo di una strage conserva i reiterati difetti del cinema di Giordana, ma il tentativo di arginarli attraverso una maggiore asciuttezza estetica e narrativa c’è e si vede. Il romanzo si puntella su due personaggi chiave, sul loro incontro, scontro, riflesso sdoppiato: l’anarchico Pinelli e il commissario Calabresi (davvero splendidamente interpretati da Pierfrancesco Favino e Valerio Mastandrea), per decenni resi simbolo di inconciliabili parti opposte, diventano – chi l’avrebbe mai detto! – per Giordana eroi quotidiani eppure tragici, consapevoli eppure segnati. Martiri, entrambi, di una guerra glaciale e sotterranea, di trame intricate e inestricabili, di una macchina oscura e inscalfibile, decisa a tenere in piedi la costruzione del potere. E’ un modo di vederla, certo. E’ il frutto di 43 anni di piste e depistaggi, processi e archiviazioni, e, più di tutto, rielaborazioni e giuste distanze. Le polemiche che arrivano e che verranno sono complementari al film: per dire non solo che questa non è – ancora – l’unica versione possibile della storia, ma che non lo è nemmeno il mondo in cui viviamo. Che “la madre di tutte le stragi” non è stata una fatalità inevitabile, ma la deviazione sanguinosa di un percorso non ancora scritto. Il romanzo della strage raccontato da Giordana mette l’accento, più che sulla progressione d’eventi – scandita attraverso capitoli incalzanti in due ore e dieci di pellicola che scivolano serrate e veloci -, sulla pluralità di personaggi, istituzioni, direzioni, movimenti coinvolti. Restituisce la sensazione precaria di venti contrari, il fermento di un periodo così denso di alternative possibili da sembrarci, oggi, alieno, straniero. Un periodo violento e oscuro, ma non disperato. “Il segreto di Piazza Fontana” non è la tanto criticata “doppia bomba” (scelta infelice, va detto, più che altro perché innecessaria), ma la capacità di indicare, senza timore, le responsabilità che tutti sappiamo, che abbiamo sempre saputo, con o senza prove. Era il caso di (ri)dirlo, di raccontarlo. Di riaprire il dibattito: sperando che seguano altri “romanzi”, altre narrazioni, portandosi appresso altri futuri possibili.