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Il suono sotto la pelle

sabato 24 Gennaio, 2015 | di Fabrizio Garau
Il suono sotto la pelle
Editoriale
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Lo score di Under the Skin, firmato da Mica Levi (classe 1987), è uno dei casi musicali del 2014, perché sembra mettere d’accordo mainstream (premio come miglior compositrice agli European Film Awards) e underground.

Il film, una produzione inglese come Levi, ha ricevuto il sostegno dalla stampa nazionale, ad esempio del Guardian, raggiungendo dunque grosse fette di pubblico. Pochi giorni fa un conosciutissimo negozio on line indipendente di Manchester, Boomkat, ha sancito un po’ a sorpresa che Under the Skin OST è il suo disco dell’anno, quindi pare che piaccia (o possa piacere) anche a determinate fette di pubblico.mediacritica_il suono sotto la pelle I proprietari di Boomkat, per inciso, sempre nei mesi passati hanno scommesso su Michaela con la loro etichetta Modern Love, pubblicando una sua mixtape, perciò sono più che di parte. Pure gli americani, d’altro canto, si sono interessati: Pitchfork ha intervistato sia Micachu (nome di battaglia della ragazza quando suona col suo gruppo) sia Jonathan Glazer, regista del film e, in passato, del video di Karma Police dei Radiohead (totem della webzine), inoltre ha messo la soundtrack in ascolto integrale sulle sue pagine. Poi, sempre grazie a Boomkat, che di marketing evidentemente ne sa, si legge che anche altri artisti – molto poco inclini ai compromessi – si sono accorti dell’album, piazzandolo nelle loro classifiche personali di fine anno. Per fare tre nomi: Stephen O’Malley (Sunn O))), KTL), Kevin Martin (The Bug, Techno Animal) ed Erik Skodvin (Miasmah, Svarte Greiner). Questo succede per un motivo molto semplice: Levi, come Glazer, si è spinta un po’ più in là. Il tema principale (tre note) di Under The Skin è scabro, minimalista e si trova all’interno di un lavoro realizzato  con una strumentazione essenziale (suoni di sintesi e veri strumenti ad arco, tra i quali la sua viola, poi flauto e percussioni), ispirato – a detta di Michaela – a Tetras di Xenakis, ma nello stridore delle corde un cinefilo può ritrovare nomi ben più familiari (Herrmann? Anche Kubrick che ricorre a Ligeti). Certo che qui dissonanze, il prolungamento innaturale di certe parti, l’uso delle ripetizioni e quello dei silenzi catturano inevitabilmente anche l’attenzione di chi mastica roba più estrema, senza dimenticare alcune basse frequenze così scure e pesanti che affondano chi ascolta non si sa bene dove, un po’ come succede a quei poveracci che credono di potersi davvero fare Scarlett Johansson. Non va escluso, poi, l’eterno ritorno degli appassionati alle colonne sonore e di sicuro aiutano l’irrealtà di un film “formalmente” di fantascienza e la quasi assenza di dialoghi, così che diventa quasi tutto musica: non quella delle canzoni, bensì ciò che di solito chiamiamo ambient, noise o – esagerando – . “sperimentale”. Levi e Glazer, insomma, non sono i primi a cercare di forzare i limiti, ma forse oggi sono i soli ad aver intercettato sensibilità altre. Vedremo se questo garantirà una vita più lunga ad Under the Skin o gli conferirà lo status di “cult”, o ancora se altri seguiranno l’esempio e porteranno certi suoni e certi artisti in superficie. Sì, perché in questo campo Michaela era all’esordio.

 

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