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In questo numero

Cinema e cultura visuale in Corea

venerdì 31 Luglio, 2020 | di Francesco Grieco
Cinema e cultura visuale in Corea
Editoriale
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Gocce di Corea: tra nuove tecnologie e disciplina dei corpi

Riprendiamo a pubblicare un vero numero di Mediacritica, dopo circa un anno, in cui vi abbiamo tenuti aggiornati soltanto sui festival cinematografici. Intanto, non solo nel mondo degli audiovisivi, tutto è cambiato. Per limitarci a ciò di cui ci occupiamo abitualmente su queste pagine, la pandemia di COVID-19 ha comportato l’annullamento del festival di Cannes e di altre manifestazioni cinematografiche, in tutto il pianeta. Le sale cinematografiche sono rimaste chiuse per mesi. Il lavoro sui set è stato interrotto a tempo indeterminato. La critica cinematografica deve tener conto di tutto questo.

Durante la quarantena, anche noi di Mediacritica, sulla pagina Facebook della rivista, abbiamo suggerito film, programmi tv, videogiochi, fumetti, lezioni di cinema, serie in streaming. Abbiamo sperimentato con le dirette sul nostro canale Instagram. Ora è il momento di tornare alla carica, sul nostro sito, di tornare alla critica vera, con un numero che, sia pur con scelte dolorose ma necessarie, recupera, tra serie e film, alcune delle opere davvero impossibili da ignorare: The Irishman, Favolacce, C’era una volta a… Hollywood, Unorthodox, Unbelievable, Hollywood. Tra i nuovi articoli, troverete un bilancio dell’ultimo Festival di Berlino, una riflessione sui palinsesti televisivi dedicati al centenario felliniano e un commento su come la televisione ha trattato l’argomento Coronavirus. Soprattutto, troverete uno speciale, curato dal sottoscritto e dedicato a cinema e cultura visuale della Corea del Sud. Vi hanno contribuito i massimi esperti italiani di cinema dell’Estremo Oriente. 

Lo spunto viene dal successo mondiale di Parasite. L’intento è quello di offrire una mappatura, per forza di cose parziale, ma ragionata, originale e diacronica, sulla produzione artistica, cinematografica, fumettistica di una nazione di cui in questi mesi abbiamo sentito molto parlare, per l’efficacia del modello locale di riduzione del contagio, che ha impedito il lockdown totale e permesso il regolare svolgimento delle elezioni politiche. Un modello che si è affidato a un enorme numero di test, rapidissimi e gratuiti, a un tracciamento di spostamenti e contatti ipertecnologico e oggettivamente invasivo, a una disciplina dei corpi – l’isolamento inflessibile dei contagiati, il distanziamento rigoroso nei luoghi pubblici – accettata con stoicismo, nel ricordo dell’epidemia di MERS del 2015, dalla popolazione. Un popolo diversissimo culturalmente da noi irrequieti mediterranei, molto più abituati al contatto fisico: etnicamente omogeneo, con una densità molto elevata per chilometro quadrato e grandi disuguaglianze sociali, ma che ha imparato durante le epidemie precedenti – oltre alla MERS, l’infezione da virus Zika e la SARS – a non preoccuparsi troppo per la privacy, a vedere di buon occhio GPS e telecamere di sorveglianza, e a cooperare nelle emergenze. Dunque, nuove tecnologie e disciplina dei corpi, per bloccare il contagio. E cosa ci raccontano in particolare i film sudcoreani degli ultimi anni, quelli di genere e quelli d’autore, se non, da una parte, la diffusione capillare di dispositivi elettronici più o meno costosi – si pensi al colosso mondiale Samsung, tra i “chaebol” (le conglomerate) che, con i loro investimenti, hanno reso possibile la nascita del New Korean Cinema di fine anni Novanta – come sintomo dell’affermazione rapida di un’economia capitalistica di influenza statunitense, che convive faticosamente con le antiche tradizioni sudcoreane e produce non pochi disoccupati. Dall’altra parte, i film di registi come Kim Ki-duk, Park Chan-wook, Bong Joon-ho, Lee Chang-dong ci mostrano proprio gli eterogenei tentativi di controllare i corpi, di volta in volta allontanati, penetrati, picchiati, ammanettati, imprigionati, torturati a morte, volatilizzati, ricostruiti chirurgicamente. La carne e la macchina, il povero e il ricco, il sano e il malato, la campagna e la città, la storia locale e l’esterofilia, il contatto e il distacco: su queste dicotomie violente si fonda un cinema di affascinante complessità e di gloriosa tradizione, che, nei suoi nomi di punta, continua ad avere molto da insegnare, anche a distanza.

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