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In questo numero

Burning di Lee Chang-dong e Parasite di Bong Joon-ho

venerdì 31 Luglio, 2020 | di Francesco Grieco
Burning di Lee Chang-dong e Parasite di Bong Joon-ho
Corea: autori a confronto
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Corpo a corpo

Oscurato in parte dall’enorme successo di Parasite di Bong Joon-ho, l’ultimo film di Lee Chang-dong Burning può risultare meno immediato per lo spettatore, ma non per questo bisogna sottovalutarne la portata. Un thriller dell’anima, che condivide con Parasite una critica sociale e una vena corrosiva, sia pur declinata in maniera differente. D’altro canto, non credo possano esistere registi più diversi di Bong e Lee. 

Lo stile di Bong è riconoscibile e personale quanto quello di Lee, in tutti i suoi film. Di sicuro, però, a livello di messinscena e di inquadrature, Bong ha in mente l’universalità del cinema hollywoodiano, mentre Lee è più affine ai registi europei da festival. Tanto il cinema di Bong Joon-ho è grottesco, eccessivo, esplicito, ironico, violento, spettacolare, quanto quello di Lee Chang-dong è realistico, misurato, sfumato, drammatico, sottile, riflessivo. Bong rielabora i generi con grande maestria e spiccato senso dell’umorismo, servendosene per una denuncia dei problemi politici della Corea del Sud, a partire dalla disuguaglianza economica. Il suo è un cinema in cui attraversare gli spazi fisici vuol dire lottare strenuamente per guadagnare una migliore posizione sociale (Parasite), o, semplicemente, per sopravvivere (The Host,  Snowpiercer). La dimensione temporale, nei suoi film, frequentemente è segnata dalla ripetizione seriale di atti criminosi scioccanti (Barking Dogs Never Bite, Memories of Murder). Ne consegue una visione del mondo pessimistica, in cui il Male trionfa spesso e volentieri, e i tentativi dei personaggi di venire a patti con una realtà oppressiva si rivelano quasi sempre fallimentari, o, nella migliore delle ipotesi, ostacolati da gravi dilemmi morali (Mother).

Lee rimane, per tutta la carriera, sostanzialmente un regista di drammi d’autore, che, di volta in volta, si colorano, come in Green Fish e Peppermint Candy, di qualche sfumatura gangsteristica, thriller o poliziesca, oppure di slanci romantici e lirici (Poetry). Il suo resta, comunque, un cinema del trauma, in cui i protagonisti si scontrano con la disabilità fisica (Oasis), con serie difficoltà psicologiche (Secret Sunshine), con relazioni famigliari disastrose, con il rimpianto per un amore perduto, impossibile, o per un passato felice, ma ormai lontano. Ne deriva una dimensione spaziale soffocante, dove anche i luoghi aperti si fanno correlativi oggettivi del disagio e delle gabbie mentali dei personaggi (Burning). E il tempo del trauma non perdona, implacabile. È un tempo dell’attesa, della memoria affaticata di chi resta, a ricordare chi è scomparso e chi è distante. 

Su questo contrasto tra presenza e assenza è giocato tutto Burning. Hae-mi svanisce nel nulla con la stessa rapidità con cui è arrivata per sconvolgere l’equilibrio di Jong-su, costruito sulla solitudine e l’evitamento dei rapporti. Il triangolo Jong-su/Hae-mi/Ben sembra ridursi, in apparenza, a un gioco di specchi tra i due giovani uomini, uno la nemesi dell’altro.

Il gatto psicopatico Ben che gioca col mite topolino Jong-su. Mai come dal momento in cui si perdono le tracce della ragazza, però, ogni fotogramma del film è permeato della sua presenza, dell’oblio della sua assenza. E il lutto brucia più intensamente di una serra incendiata. Fino al finale, a quel sorprendente abbraccio insanguinato, che colma le distanze tra il ricco e il povero. Dall’ultimo soffio vitale di Ben, dalle ceneri del doppelgänger, dal fuoco dell’odio e dell’amore, da quest’amplesso non masturbatorio con un altro se stesso, Jong-su, nudo, rinasce come l’Araba Fenice. 

Il finale di Parasite racconta ben altro tipo di riscatto. Anche qui c’è un abbraccio, quello in campo lungo tra il figlio Ki-woo e il padre Ki-taek: nel sogno di Ki-woo, o meglio nel suo piano, ci sono i soldi, necessari per comprare la casa precedentemente abitata dai Park. Il denaro come mezzo per riunire la famiglia. La rinascita, dunque, per i Kim non è un reset individuale, personale, perché i legami di sangue tra loro sono fondamentali e solidissimi. Coincide, invece, con la conquista del proprio spazio nel mondo, per sé e per i propri cari. Come nei western. Cambia la direzione del viaggio: non più da est verso ovest, attraverso la nazione, ma dal basso verso l’alto, muovendosi nella labirintica Seul, dalle viscere verso la testa della città, per costruirsi, con ogni mezzo, un futuro di benessere economico. 

E se i Kim, per tutto il film, fanno di tutto per impossessarsi dell’abitazione lussuosa dei Park, cioè dello status symbol del successo economico, in Burning gli spostamenti abitativi di Jong-su, verso la casa di campagna del padre e verso il monolocale, ormai disabitato, di Hae-mi, sono giustificati da esigenze identitarie e affettive, legate rispettivamente alla ricerca delle proprie origini e alla pulsione sessuale. In entrambi i casi, l’atteggiamento di Jong-su è nostalgico, rivolto al passato, finalizzato al rivivere momenti già trascorsi. Il presente e il futuro sono enigmatici, incomprensibili per lui. Per questo, per gran parte del film, il passato è un rifugio, dove Jong-su può rinchiudersi in solitudine. Le case in cui sosta sono luoghi della memoria, dove Jong-su segue le tracce di se stesso.

Questa profondità psicologica del personaggio, che, a ben guardare, caratterizza anche Ben e Hae-mi, non trova riscontri in Parasite. Non si tratta di un difetto: lo sguardo di Bong Joon-ho è quello di un sociologo, gli interessano principalmente le dinamiche collettive, di massa, di cui i suoi protagonisti sono interpreti esemplari. Senza contare che Parasite è un film corale, in cui si confrontano tre nuclei famigliari distinti, tra cui solo uno, quello più abbiente dei Park, vive al di sopra del livello del suolo. Quindi, il percorso di vita di ciascun personaggio è legato indissolubilmente a quello degli altri, e dei parenti in particolare. L’interiorità non è prevista dalla lotta di classe. Importano i corpi, si direbbe i corpi sociali, nel caso in cui si consideri la famiglia come un corpo intermedio tra i tanti. 

Al di là della teoria politica di Bong, per scongiurare il pericolo di scarso coinvolgimento dello spettatore, il regista coreano adotta uno stile di narrazione “forte”. La gradualità calcolata dell’ascesa dei Kim, gli appassionanti ostacoli che incontrano, la violenza del sottofinale sono scelte tradizionali di racconto, che allontanano decisamente Parasite dalla deriva dello straniamento e aggiungono degli elementi d’azione a questo film “a tesi”. Così, non si ha l’impressione di assistere a un trattato di filosofia sociopolitica in forma audiovisiva, ma viene salvaguardata l’adesione dello spettatore alle vicende dei personaggi, o meglio dei tre diversi nuclei famigliari. 

Se la sceneggiatura del film di Bong non lascia nulla in sospeso, al contrario in Burning molti elementi di trama rimangono misteriosi e poco chiari, anche dopo una seconda visione. Vi prevale una forma di narrazione “debole”, in cui comportamenti e atteggiamenti dei personaggi non hanno necessariamente una spiegazione chiara, i piani di realtà si confondono, non c’è una progressione lineare del racconto, che sembra girare a vuoto. Non è solo chi guarda il film a chiedersi quale sia il senso di ciò che vede. Jong-su s’interroga sulla scomparsa di Hae-mi e sulla pericolosità di Ben, e lo fa nonostante la propria incapacità di comprendere simbolismi e metafore, cioè prendendo tutto alla lettera. Mentre Hae-mi, con tutta la sua inquietudine, ricerca senza requie il senso della vita, anche attraverso la danza, anche a costo di perderla, la vita.  

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