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Ieri, oggi (e domani): il cinema sudcoreano alla ricerca di una sua storia

venerdì 31 Luglio, 2020 | di Pier Maria Bocchi
Ieri, oggi (e domani): il cinema sudcoreano alla ricerca di una sua storia
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Mi chiedevo: “Bong Joon-ho, dopo due film come Barking Dogs Never Bite e Memories of Murder, è già autore?” [Pier Maria Bocchi, Il film e la firma – I generi e l’autore nel cinema coreano contemporaneo, in AA.VV., Stagioni e passioni – Il cinema coreano tra passato e presente, Cineteca di Bologna, Aprile 2005].

Era il 2005. Non l’altro ieri, ma neanche un secolo fa. Per quanto oggi possa riderne, non mi pareva una domanda inopportuna. E neppure mal posta: il cinema coreano, quello che secondo Huh Moon-yung coincideva, tra la metà e la fine degli anni Novanta, con “l’arrivo dei cinefili” – Hong Sang-soo, Kim Ki-duk, Lee Chang-dong, Park Chan-wook, Kim Jee-woon – e contemporaneamente con “l’era della diversificazione”, alla luce del clamoroso successo nelle sale locali di Shiri e di “operazioni sempre più grandiose e spettacolari”, si mostrava allora agli occhi dei cinefili occidentali come un fenomeno, più che semplicemente esotico, di rilancio dell’entusiasmo. Un entusiasmo, in tanti credevamo, simile alla gioia che poco tempo prima la scoperta del cinema di Hong Kong aveva prodotto e moltiplicato. L’entusiasmo, dunque, più essenzialmente estatico, davanti a qualcosa di inaspettato; e l’entusiasmo, al contempo, più politico, perché – proprio com’era stato per Hong Kong – il cinema coreano commerciale, prima ancora di quello d’essai e da festival, sembrava rappresentare una realtà. 

Era il 2005, dunque, quando ipotizzavo: “il cinema coreano, generalmente parlando, è per ora un cinema prevalentemente di film, di genere. Gli autori veri e propri, quelli sui quali la maggior parte della critica è ormai d’accordo, si contano su una mano sola”. Sono passati 15 anni, e da spettatore, da appassionato, da critico, vedo ancora il cinema sudcoreano come un credito d’imposta. Nei suoi confronti sento di avere il diritto a un fido, e non per eccessiva contribuzione. “Il mercato cinematografico sudcoreano è parco di autori perché non li vuole, o meglio, non vuole il concetto di autore. Il cinema della Corea del Sud per adesso vuole il film”: oggi sono senza dubbio cambiati contesti e palcoscenici, tuttavia l’autorializzazione sfrenata, anche quando di prestigio, si è rivelata nel corso di poco tempo un’idea romantica, il più delle volte non concreta e neppure verosimile. La colpa è un po’ di tutti, della critica, che si è lasciata travolgere dall’euforia; dei festival, che hanno confidato sulla passione un po’ ebete; e della Corea stessa, che ci ha marciato, comprensibilmente. 

Tutto, però, torna utile oggi, per capire le giuste proporzioni tra film, autore e pubblico. E per capire, in particolare, l’importanza del rapporto tra esposizione mediatica e percezione. Quanti di quei cinefili, subito autorializzati, sono ancora acquisiti come autori? Senza dubbio Hong e Lee, ma come la mettiamo con Kim Ki-duk, che ha contribuito più di altri alla nascita del culto di sé e del nuovo cinema coreano, fin dalla proiezione alla Mostra di Venezia de L’isola, con tanto di tam-tam pettegolo su svenimenti in sala, e che è finito per diventare la propria caricatura? E con Park, nel quale chiunque riponeva fiducia per un cinema spietato e non conciliato, e che non pochi adesso vedono ammanettato in un calligrafismo inerte? D’altronde, c’è il rovescio della medaglia, ovvero coloro che, qualche lustro fa, ci parevano autori da tenere d’occhio e che gli anni hanno fatto evaporare, senza peraltro che nessuno se ne accorgesse (un segnale indicativo): dopo Save the Green Planet! non sono stato il solo a scommettere su Jang Joon-hwan, e abbiamo sbagliato tutti; ed è meglio stendere un velo pietoso, ad esempio, sul destino di Im Sang-soo, che con La moglie dell’avvocato mi era sembrato un nuovo Tony Au, debitamente aggiornato a tempi e luoghi diversi, s’intende. 

La sensazione, oggi, è quella di una “messa agli atti” per cui, da almeno quindici anni, appunto, le cose non sono cambiate. Gli appassionati aspettano che i festival selezionino il nuovo capolavoro di Lee Chang-dong e il nuovo tassello del puzzle poetico di Hong Sang-soo, ma quando è stata l’ultima volta, di recente, che un nome davvero nuovo ci ha fatto alzare il sopracciglio con speranza? Vado a memoria, ma credo sia capitato soltanto con Na Hong-jin. La vetrina di Cannes, al netto di qualunque “tributo” di pacchetto, è emblematica nella scelta schizofrenica e demenziale: ne azzecca uno (The Wailing), pesca nel mucchio gli altri (The Villainess, The Gangster The Cop The Devil, Office, The Target); e, laddove punta sull’inedito, in apparenza nudo e crudo, come i bei tempi andati (Bedevilled), l’esaltazione dura poco, ed è – per molti – un’illusione, per non dire di peggio. Ciò significa che l’ipoteca autoriale festivaliera, in forma di più o meno grande abbuffata fanatica, non funziona, perché oggi non c’è nessuna garanzia autorevole di qualità, gli autori continuano a chiamarsi Hong Sang-soo e Lee Chang-dong – e Bong Joon-ho: dopo 15 anni posso rispondere a quella domanda, che non era retorica, lo giuro, con un sì -, e i film di cassetta rimangono numerosissimi e, in buona percentuale, trascurabili.

Abbiamo contato, fin da JSA – Joint Security Area e Memories of Murder, sull’indebolimento deciso del confine tra semplice film mainstream e film d’autore, ma oggi ci ritroviamo ancora con gli stessi nomi e cognomi sulla stessa mano sola; anzi, qualcuno si è poco sorprendentemente dissolto – che fine ha fatto Jang Sun-woo, il regista di Bugie e di The Resurrection? Posso anche insistere sull’abilità di genere di Ryoo Seung-wan, constatando una certa continuità stilistica da No Blood No Tears a The Berlin File, ma faccio fatica a considerarlo un autore. D’altro canto, uno come E J-yong sembra aver rimosso dai suoi film i tratti più tradizionalmente popolari (An Affair, Untold Scandal), per adagiarsi nell’autorialismo più severo e un po’ antipatico (The Bacchus Lady).

Oggi, il cinema coreano è identico a se stesso, non è cambiato, non è cresciuto. Il successo di Parasite è uno specchietto per le allodole, se nel 2017 e nel 2018 il box office locale è dominato dal blockbuster in due puntate Along with the Gods e nel 2019 al primo posto degli incassi in patria c’è una commedia d’azione come Extreme Job. Siamo nel 2020, ma sembra che sugli schermi passi ancora Guns & Talks e che dietro le quinte circoli quale unica ricetta pratica ed esemplare quella di impasto rustico di Jang Jin.

Dimentichiamoci di Hong Kong, è stato un piacevole sogno: il cinema sudcoreano, che con Tell Me Something, My Wife Is a Gangster e My Sassy Girl – chi li ricorda? – aveva assunto i connotati di un “outsider” benvenuto, adesso rivela tutte le sue fragilità “epistemologiche”. Il mercato gli dà ancora ragione, ma lo spettatore è più astuto. Gli autori da soli non fanno un cinema, i film forse sì. Basta saper distinguere, e saper individuare le proporzioni tra merce e richiesta. Poi si può ancora gioire di fronte a un thriller di gangster come The Merciless, o divertirsi con A Taxi Driver, ma non si fa un buon servizio a nessuno se non li si guarda per quello che sono: film. Il cinema coreano odierno non è né più né meno della somma – evidente, chiara, elementare – delle sue parti, talune considerevoli, talaltre no. Difficile trarne una storia, e ancor più una narrazione.

Il pluralismo contemporaneo delle piattaforme, dopo l’attendibilità maldestra e sterile determinata dai festival più generalisti, è, a questo proposito, più una condanna che una benedizione: Time to Hunt, giunto su Netflix, è la conferma che nel cinema coreano la misura del commercio è la sola credibilità valida, tanto che il film viene presentato al festival di Berlino, e il cerchio si chiude. Vedevamo una società e un mondo dietro Mr. Vendetta – Sympathy for Mr. Vengeance, Old Boy e perfino Bittersweet Life, ma probabilmente erano – soltanto? – grandi film.  

        

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