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La new wave dell’animazione sudcoreana

venerdì 31 Luglio, 2020 | di Enrico Azzano
La new wave dell’animazione sudcoreana
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Taekwon V ha conquistato il mondo!

L’ultima onda dell’animazione sudcoreana, apparentemente inarrestabile, ha una lunga storia alle spalle e si tinge di colori alquanto diversi tra loro, non sempre brillanti. Partiamo da lontano: siamo nel 1967 e, con qualche decennio di ritardo rispetto a industrie cinematografiche nazionali più organizzate e floride, la Corea del Sud produce il suo primo lungometraggio animato a colori, A Story of Hong Gil-dong di Shin Dong-hun. Balbettante e un po’ fuori dal tempo dal punto di vista tecnico-artistico, il film è un successo, ma la prima onda dell’animazione sudcoreana si arresta piuttosto rapidamente (1967-1972).

Dopo aver riposto in un cassetto tradizioni e leggende popolari, animatori e produttori volgono lo sguardo verso le stelle e il cosmo: siamo nel 1976, nelle sale irrompe la copia carbone dei samurai d’acciaio Robot Taekwon V di Kim Cheong-gi e così comincia la seconda onda, tutta fantascienza, robot e astronavi (1976-1985). Tra sequel sempre meno significativi e opere che traggono fin troppa ispirazione dalle serie e dalle pellicole nipponiche, la produzione animata sudcoreana si ritaglia il ruolo quasi invisibile, ma fondamentale, di “service” per Giappone, Stati Uniti ed Europa – agli intercalatori sudcoreani dobbiamo tavole e tavole di titoli di successo, dalle linee stilizzate della serie nipponica Fantaman (1967) alle impeccabili animazioni di Principessa Mononoke (1997) e La città incantata (2001), dall’arcade Space Ace (1983), prodotto da Don Bluth, ai Simpson e a Futurama, dal tragico Quando soffia il vento (1986) di Jimmy Murakami ai paciosi Puffi.

Lo “sci-fi boom” dura un decennio, chiudendosi con l’immeritato flop della coproduzione sudcoreana-statunitense Starchaser: La Leggenda di Orin (1985) di Steven Hahn, un lungometraggio che mescolava ambiziosamente animazione tradizionale, computer grafica e 3D. Nel frattempo, il disegnatore Kim Soo-jung traccia un altro possibile sentiero da seguire: il personaggio per bambini Dooly the Little Dinosaur (1983) diventa il primo redditizio franchise. Col passare degli anni, la produzione destinata ai piccoli spettatori rappresenterà una larga fetta degli introiti, una solidissima base d’appoggio per far crescere costantemente il settore. 

Il decennio successivo vive di stalli e speranze, legate soprattutto a fattori esterni all’industria, dalla spinta economica delle Olimpiadi di Seul alla fine della dittatura militare, che si traduce in una profonda (ri)organizzazione dell’intero settore cinematografico, capace di rigenerarsi con sorprendente energia, nonostante la crisi economica del 1997. Se la new wave del cinema live action ha un suo ideale punto di partenza nel travolgente successo di Shiri (1999) di Kang Je-gyu, il cinema d’animazione deve attendere il 2002 per avere il suo campione, My Beautiful Girl, Mari di Lee Sung-gang. Poetico, di chiara ispirazione ghibliana, graficamente più che apprezzabile, il film di Lee può far bella mostra di sé nei festival internazionali, viene premiato ad Annecy, ma non riesce a conquistare il box office nazionale. Un’altra occasione mancata? La fine prematura della nuova onda? No. My Beautiful Girl, Mari e il successivo flop Wonderful Days (2003) di Kim Moon-saeng sono la punta di un iceberg, le frecce ancora da calibrare di un colosso silente, che si prepara a far concorrenza, o collaborare alla pari, con Giappone, Stati Uniti, Francia e, negli anni successivi, con l’arrembante Cina. I film di Lee e Kim sono la dimostrazione di un potenziale ancora da esprimere compiutamente, oltre a essere il risultato di decenni di fruttuosa manovalanza. Dall’intercalazione alla creazione originale, il passo non è stato breve e non è nemmeno definitivo: accanto a esperimenti lodevoli come Aachi & Ssipak (2006) di Jo Beom-jin, troviamo opere smaccatamente derivative come Oseam (2003) di Sung Baek-yeop, trascurabili come Empress Chung (2005) di Nelson Shin e coproduzioni non del tutto riuscite come I figli della pioggia (2003) di Philippe Leclerc. Mentre gli omnibus If You Were Me: Anima Vision (2005) e If You Were Me: Anima Vision 2 (2008) veicolano stili diversi e Life Is Cool (2008) di Equan Choi contribuisce, col suo mattoncino, alla lunga vita del rotoscopio, l’animazione sudcoreana alterna alimentari produzioni in computer grafica (The Reef – Amici per le pinne, My Friend Bernard, Dino e la macchina del tempo…) a pellicole in animazione tradizionale senza troppe speranze (Hammerboy, Blade of the Phantom Master, Olympus Guardian…), almeno fino alle spiazzanti opere prime di Yeon Sang-ho e Lee Dae-hee e all’elegante minimalismo dello studio Meditations with a Pencil.

Nel biennio 2011-2012, si susseguono, infatti, gli ispirati e illuminanti The Kings of Pigs (2011) di Yeon Sang-ho, Green Days: Dinosaur and I (2011) di Ahn Jae-hoon e Han Hye-jin e Padak (2012) di Lee Dae-hee. Al di là dei loro successi, inevitabilmente inferiori dal punto di vista economico al pur lodevole prodotto da box office Leafie – La storia di un amore (2011) di Oh Seong-yun, questi tre film rappresentano una sorta di dichiarazione d’indipendenza artistica e produttiva. Le linee brutali, deformate e orrorifiche di Padak e The King of Pigs, come quelle morbide e adolescenziali di Green Days, delineano qualcosa di finalmente “altro” rispetto alla vicina e soverchiante produzione nipponica, o agli standard statunitensi. Non c’è traccia, in questi tre film, delle scorie grafiche e narrative del lungo rapporto di sudditanza dell’animazione sudcoreana nei confronti di Stati Uniti, Francia e Giappone: più dell’aspetto produttivo-commerciale, è significativo l’afflato personale e autoriale, la declinazione di un approccio nuovo e peculiare all’animazione.

L’onda lunga del New Korean Cinema è meno travolgente sul fronte animato, meno compatta. A qualche scricchiolante tentativo di sondare nuovi territori grafici, come The Dearest (2011) di Kim Sun-ah e Park Se-hee, si contrappone una fiumana di coproduzioni in computer grafica, fatte con lo stampino, sulla scia dei successi a stelle e strisce: Bolts & Blip: Battle of the Lunar League (2012), Pororo: The Racing Adventure (2013), Nut Job – Operazione noccioline (2014), Bling (2016) e via discorrendo, fino al recente Scarpette rosse e i sette nani (2019). Più sbilanciata verso la quantità che la qualità, l’animazione sudcoreana è, però, in grado di muoversi lungo diverse direttrici: dalle produzioni che riecheggiano gli anime, come Ghost Messenger (2014) di Bong Hue Gu, The Satellite Girl and Milk Cow (2014) di Chang Hyung-yun e Kai (2016) di Lee Sung-gang, alle suddette coproduzioni in computer grafica, dalla vasta produzione televisiva per i più piccoli a titoli totalmente fuori dagli schemi come l’acidissimo On The White Planet (2014) di Hur Bum-Wook. Se il fronte CGI potrà, forse, riservarci qualche sorpresa, è, al momento, l’animazione tradizionale a occupare posizioni importanti ad Annecy e nei festival più rappresentativi: The Fake (2013) e Seoul Station (2016) di Yeon Sang-ho, The Road Called Life (2014), The Shower (2017) e The Shaman Sorceress (2020) dello studio Meditations with a Pencil di Ahn Jae-hoon, forse l’horror Beauty Water (2020) di Cho Kyung-hun, rappresentano il plusvalore dell’industria del cinema d’animazione sudcoreano, il punto di arrivo e ripartenza di un percorso, iniziato a metà degli anni Sessanta all’ombra del Sol Levante. Anno dopo anno, la Corea del Sud ha costruito il proprio impero, ancora legato al Giappone, ma a suo modo indipendente e finalmente creativo. Insieme a Stati Uniti, Giappone e Francia, dopo tanta fatica, c’è anche la Corea. Sicuramente non è poco, forse non è ancora abbastanza.

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