La saponetta indocile e altri balletti meccanici
Non è un caso che le più celebri definizioni del cinema di Luc Moullet le diano Jean-Luc Godard e Jean-Marie Straub, il primo paragonandolo a un Courteline rivisto da Brecht e il secondo definendolo il solo erede di Buñuel e Tati. Non è un caso perché quei due registi, autori di un cinema saggistico e riflessivo, staccato dalla narrazione comunemente intesa, anzi nemici delle convenzioni drammaturgiche, sono le radici cinematografiche su cui si è costruita la filmografia di Moullet, classe ’37, che scopre il cinema a 5 anni, se ne innamora a 9 e a 18 entra nella redazione dei Cahiers du cinéma.
Una filmografia che conta 43 titoli come conferma l’editore Capricci, che nel 2021 ha pubblicato Memoires d’une savonette indocile, la sua autobiografia. Onnivoro e auto-didatta, ho prodotto lunghi, corti, documentari naturalistici (Terres noires, Les Havres, L’empire de Médor) e film sul cinema, quasi tutti reperibili su YouTube. Il suo più forte interesse però è quello umoristico, o meglio quello di fare un cinema saggistico attraverso il filtro intellettuale della gag, della risata, dissacrare la realtà con uno stile ieratico per capirla meglio. Appunto, Tati e Buñuel che si accoppiano con Straub e Godard, recuperando un certo tipo di frontalità e distanza dalla comica muta.
Prendiamo il suo primo film, Un steak trop cuit (1960), racconta il rapporto tra due giovanissimi conviventi attraverso il loro rapporto con il cibo, attraverso i gesti e i comportamenti che separano chi cucina – male – e chi mangia – anche peggio – facendo della pantomima attorno agli atti della nutrizione un discorso politico, che approfondirà 18 anni dopo, in Genèse d’un repas, mescolando coreografia meccanica e indagine, mostrando a ritroso la catena che porta sulla nostra tavola uova, tonno, banane. Questo stile straniato, appunto brechtiano, perché agisce senza coinvolgimento per scatenare la risata e il pensiero, non per forza in quest’ordine, diventa il motore di un corpo comico che, almeno fino a un certo punto, vede il cinema come atto in prima persona, come appunto fanno i grandi cineasti comici: in Anatomie d’un rapport è al centro di un rapporto di coppia che viene analizzato sotto la lente dell’assurdo, Ma première brasse (1981) lo vede imparare a nuotare per poi sfogarsi in una meravigliosa danza scomposta sulle note di Popcorn, fino all’apice di Les minutes d’un faiseur de cinéma (1983), in cui Moullet si auto-ritrae mentre si deride e deride chi sopravvaluta il proprio ruolo nel mondo, nella fattispecie i registi, opera a cui darà una sorta di ideale seguito con Le prestige de la mort (2006). Però ha anche voglia di ampliare il proprio bagaglio di modi di fare cinema, come il western comico Une aventure de Billy le Kid (1971) con Jean-Pierre Leaud (e il montaggio di Jean Eustache, di cui Anatomie d’un rapport sarà una sorta di contro-canto “stupido”), o anni dopo addirittura tentare la strada di un cinema che flirtasse con l’accademia e la convenzione, come Le fantôme de Longstaff (1996), tratto da Henry James.
Ma i suoi capolavori hanno a che fare con la costruzione delle gag, con la riflessione sul modo in cui le gag si fanno e disfano, le variazioni sul tema e su un’unica risata che diventano sguardi su un mondo illogico e meditazioni su quello stesso sguardo: Barres (1984) mostra in 14 minuti l’evoluzione dei tornelli delle metropolitane e i diversi modi di superarli per non pagare il biglietto, in un crescendo di gag in cui la fissità delle inquadrature esalta i movimenti degli attori/danzatori, un concetto che si svilupperà nel documentario Toujours moins (2010) dove quelle gag diventano lo spunto per riflettere sull’automazione della nostra vita; i lungometraggi La comédie du travail (1988) e Parpaillon (1993) seguono la stessa struttura di minimalismo ripetitivo in cui i piccoli scarti producono la risata, seguendo rispettivamente le disavventure di un disoccupato in cerca di lavoro e di un gruppo di ciclisti che cercano di scalare un difficile pendio, cosa che si accingono a fare anche gli scalatori di Le systéme Zsygmondy, il più fedele per spirito e ambientazione all’eredità di Tati.
Figlio delle correnti più marginali della Nouvelle vague, Moullet ha rivendicato questa lateralità e fiera indipendenza in tutti i suoi anni, segnava la storia della critica francese mentre si ritagliava un piccolo e silenzioso culto fatto di film ostici, complessi, che sfidano lo spettatore fingendo di metterlo a proprio agio, grazie al potere di una risata.