Poesia e verità alla ricerca del tempo perduto
Che cos’è The Tree of Life? I critici e la storia del cinema se lo stanno chiedendo, provando a contenere in una risposta e a racchiudere in un giudizio l’indescrivibile. Come un bambino che per la prima volta di fronte a un orizzonte si limita a volerlo misurare o a rimproverarlo per la sua grandezza.
Rimproverare a Malick la sua ambizione sconfinata, rimproverare al film l’assenza di narrazione e il rifiuto della semplicità significa basare una critica su una concezione di ciò che a priori è ed è stato il cinema, o almeno su quali sono le sue indispensabilità. Ma se lo sguardo del cinema venisse riscritto che senso avrebbero queste motivazioni? The Tree of Life non può raccontare una sola storia perché dentro ogni inquadratura c’è una storia a sé che germoglia, a partire da quegli alberi ripresi dal basso verso l’alto che hanno sempre accompagnato la filmografia di Malick, quei “trees of life” appunto che indicano e accompagnano la vita e la morte, in un movimento perennemente ascensionale, proiettato verso Dio, verso il tentativo dell’uomo di comprendere l’essenza del creato e farne parte.
Sganciato dall’esigenza di seguire un racconto, il film porta questo ideale astratto al suo stadio di evoluzione finale, a un cinema completamente trascendentale, e la trama diventa il flusso di coscienza visivo di un uomo che ripensa il fratello morto immaginando le frontiere della genesi, del passato, e di ciò che verrà alla fine dei tempi. È cinema con un respiro poetico straordinario, che dentro di sé sembra contenere interi film: un cinema della mente votato alla visione della bellezza assoluta, ma anche un cinema alla ricerca di un tempo soggettivo in cui non ha più senso parlare di passato, presente e futuro perché tutto si fonde in un flusso ininterrotto che riproduce e ripropone la vita; in questo flusso, le immagini sono momenti poetici autonomi, e il montaggio diventa, come mai prima d’ora, una forza creatrice, una seconda regia con cui riassociarli, ricombinarli. Un cinema che con un movimento improvviso passa dall’universale al particolare, dalla nascita cosmica alla nascita di una famiglia: è qui che comincia la seconda parte del film, in una famiglia concepita come allegoria dell’uomo sospeso tra Grazia (madre) e Natura (padre), costretto a crescere tra la condizione di Giobbe e l’istinto della Volontà. È la fase dove si realizzano i ricordi, e Malick pone genialmente uno scarto espressivo tra l’infanzia e l’adolescenza: la memoria del protagonista adulto guarda all’infanzia come il tempo della grazia, con ricordi cinematografici brevissimi che tentano di riprodurre attraverso poche immagini in movimento il linguaggio delle foto di famiglia; quando finisce il bambino e comincia l’adulto, il film, senza rinunciare alle ellissi, poggia invece sulla descrizione di un autobiografismo complesso (tutta la tenera età si svolge a Waco, città natale del regista), dominato dalla scoperta di una natura che prevale sulla grazia, di un senso di colpa ontologico e di un continuo tentativo di riconciliazione con se stesso e gli altri. Un tentativo che quando sembra finalmente raggiunto lascia il passato per varcare l’Aldilà, o meglio una visione dell’Aldilà, e completare il suo bilancio esistenziale come in un novello 8 e ½. Poi non si possono più aggiungere risposte che non siano individuali, come accadeva per 2001: Odissea nello spazio…
E ora, cosa si può ancora filmare oltre The Tree of Life, dopo un cinema che parla il linguaggio dell’Arte Totale e attraverso le percezioni della vita prova a dare una definizione di Essere capace di riflettere secoli di pensiero occidentale? Forse con Malick è giunto a compimento il cinema-poesia che inseguivano anche Chaplin e Fellini, così universale da travalicare la storia della settima arte per arrivare fino a Goethe, perché probabilmente niente può avvicinarsi a descrivere The Tree of Life più dell’intuizione che ha sempre guidato lo scrittore tedesco: la poesia è verità e la verità è poesia.
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