INEDITO – DANIMARCA, GRAN BRETAGNA 2009
Non c’è posto per le fragole
Gli specchi d’acqua della Scandinavia riflettono il cielo ma celano gli Inferi. Nel mezzo, sparute tribù di vichinghi allestiscono feroci combattimenti umani.
Inedito nelle sale ma presentato nel 2009 al Toronto International Film Festival e alla 66° Mostra del Cinema di Venezia, Valhalla Rising è l’ennesimo frutto dell’estro eclettico di Nicolas Winding Refn, premiato a Cannes 2011 per la regia di Drive.
Convinto fautore di un cinema estremo, continuamente volto alla palingenesi, Refn abbandona la saga adrenalinica (Pusher I, II, III) e il biopic controverso (Bronson) per spingersi impavido nelle atmosfere immote delle montagne nordiche. Il protagonista è Oneye (Mads Mikkelsen), schiavo orbo e muto ma guerriero micidiale che, fatta strage dei suoi aguzzini, si unisce a un manipolo di crociati diretti in Terra Santa. Li attende tutt’altra destinazione. Come “il Monco” di Leone – e, quindi, epigono del samurai di Kurosawa – Oneye sfoggia una menomazione soltanto apparente. L’occhio offeso non è mancante ma retroverso. Più che sintomo di cecità parziale è metafora di un sapere inaccessibile. Al pari del guercio Odino, Oneye conosce i segreti del mondo sotterraneo e orridi stralci di futuro ne assillano il sonno in visioni di morte. Le terre che calpesta vacillano in bilico tra due ere, tra il declino di un paganesimo sanguinario e l’ascesa di un cristianesimo che è già mortifero e strumentale. Il suo legame con il divino è invece immediato, quasi non voluto ma, per quanto temuto e seguito, perché profetico e invincibile, Oneye non è una figura cristica, non incarna e non diffonde il Verbo ed è un bambino (Maarten Steven) a parlare per lui. Attraverso i sei capitoli che lo compongono, il film illustra ogni tappa del suo cammino, insieme fisico e spirituale, attribuendo ad ognuna precise scelte espressive. Se l’invasamento dei crociati che bevono il sangue del loro Dio innesca una sequenza autonoma di immagini lisergiche, sulle note stranianti del duo danese Peter Peter and Peter Kyed, il viaggio lungo il fiume – simbolo ambiguo di vita rigenerata e strada per l’oltretomba – trova nella nebbia più impenetrabile il corrispettivo visivo dell’ottundimento e della mistificazione. Al fanatismo cieco della religione, Refn oppone un punto di vista immancabilmente umano, anche quando lo sguardo si perde in panoramiche meditative, in contemplazione dell’orizzonte. Il percorso di Oneye dalla “bestialitas” della vendetta alla “pietas” del sacrificio si spoglia perciò di ogni retorica, tenacemente ancorato a una consapevolezza intuitiva, dolente e, in fondo, terrena. A differenza del cavaliere di Bergman – autore caro al regista – Oneye non si imbatte nel lato innocente della natura umana ma solo nella sua forma primigenia e a questa sceglie di soccombere perché più autentica e non ancora perversa.
Nel superamento di una violenza endemica, cifra irriducibile del cinema di Refn, l’unica missione possibile per l’uomo è riuscire a guardare se stesso e sopportare quello che vede.
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