Bestie bianche
Abdellatif Kechiche ha proposto nell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, un film storiografico sulla “Venere ottentotta”: Sarah Baartman. Ambientato nell’Europa del XIX secolo svela, con uno stile fin troppo realistico e crudo, la società del tempo, sia povera che ricca.
Sarah, con la promessa del facile guadagno, accetta di recitare una parte poco probabile di “donna selvaggia” appartenne all’etnia dei Khoikhoi. Rinchiusa in una gabbia e grazie all’assunzione di forti dosi alcoliche, veste atteggiamenti bestiali nascosti da una misera calzamaglia color carne. Ma la natura di “vera donna” non riesce a soffocare in lei il disagio emotivo, più che fisico, del doversi far toccare. Lo svelare le capacità sonore e canore, non sembra essere a lei consentito: la morbosità dell’essere umano va appagata solo con la vista e il tatto. Interviene addirittura il tribunale di Londra che, su denuncia di un’associazione pro cittadini africani, cerca di aiutarla, ma senza successo. Passa da fenomeno da baraccone di Piccadilly Street a protagonista di salotti francesi, sotto la “protezione” di Olivier Gourmet. Una parvenza affettiva di quest’ultimo la convince a svilirsi ancora di più, pur concedendole, inizialmente, maggiore interpretazione artistica. Sia a Londra che a Parigi, Sarah non coglie le due possibilità di libertà offertele. Se nel primo caso è sottoposta a valutazione psicologica, nel secondo caso è protagonista di un vero e proprio studio anatomico interrotto, per convinto pudore, oltre la vita. Il destino potrà così guidarla verso una fine in solitudine e in malattia.
Dall’inizio, con la discussione della tesi del professor Georges Cuvier, alla fine del film, con il discorso di Nelson Mandela durante il rientro delle spoglie di Sarah a casa, il regista sottopone l’osservatore ad un disagio psicologico e fisico non da poco. Protagonisti gli sguardi indiscreti e i gesti inconsulti di uomini e donne che sempre in primo piano sembrano guardare e toccare lo spettatore stesso, facendogli percepire persino uno sgradevole odore viscerale di bestie, se non per miseri casi: lo sguardo commiserevole di un’attrice di teatro inglese, le carezze delle donne francesi, la compassione di un giornalista e il rispetto di un naturalista. Il desiderio di casa della protagonista, priva di parole ma non di pensieri, è trasmesso attraverso soli sguardi, una ninna nanna e uno strumento musicale; questo provoca nello spettatore stati d’animo di rabbia ed elevazione allo stesso tempo. Stati d’animo che sembrano consolarsi solo al compassionevole modellare di una statua.