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Detroit Wild City

lunedì 8 Agosto, 2011 | di Valentina Di Giacomo
Detroit Wild City
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Se il futuro è sepolto sotto le macerie
Come sopravvivere alla fine del mondo? È difficile trovare una risposta tra le rovine di Detroit. Vista dall’alto, così come ad altezza d’uomo, nel documentario del regista francese Florent Tillon, Detroit è una città distrutta, abbandonata, inaridita.

Le immagini sono spiazzanti: la città sembra evacuata. Tutto ciò che resta delle vite delle persone che un tempo vi abitavano, dei loro ricordi, delle loro case, tutto è sepolto sotto le macerie. Come se la città fosse stata bombardata. Ad emergere dall’oblio culturale cui è stata consegnata la città americana a partire dal suo progressivo declino -iniziato alla fine degli anni ’50- solo record estremamente negativi: elevati tassi di criminalità, un ingente consumo di droghe e un allarmante tasso di randagismo dei cani. Tutti sintomi di una profonda inclinazione alla violenza ormai radicata nella città.
Se fosse un sogno, la città di Detroit, così com’è oggi, sarebbe un incubo.
Cominciata tra la fine dell’Ottocento e i primissimi anni del Novecento, (quando l’industria Ford, insieme ai pionieri del settore automobilistico, i fratelli Dodge e Walter Chrysler, rafforzarono la posizione di Detroit come capitale mondiale dell’automobile), l’espansione economica della città assicurò una crescita senza precedenti fino a tutta la metà del XX secolo. A partire però dalla fine degli anni ’50, ebbe luogo un radicale mutamento dello scenario economico-sociale. L’inasprimento delle tensioni sociali nei rapporti fra la comunità bianca e quella dei lavoratori neri provenienti per  lo più dagli stati del sud, insieme alla crisi del settore automobilistico causata dallo shok petrolifero del 1973, assestarono un durissimo colpo alla città. E poco a poco, il sistema che le aveva permesso di affermarsi in maniera progressiva dal 1830 in poi, la avviò verso un inarrestabile declino. Tanto che ad oggi, sebbene ancora popolosa, Detroit guida la classifica nazionale del decremento demografico.
Nello sguardo scelto dal regista francese, a parlare sono più che mai le immagini. E con esse i luoghi, prima ancora che le persone: loro i veri personaggi catturati da questo lavoro. Abbandonati e sventrati, gli edifici del centro di Detroit rimangono incancellabile traccia di un’umanità scappata via senza lasciare il segno, triste testimonianza di un passato senza vere radici. Tuttavia nelle parole  delle persone intervistate da Tillon non manca la speranza. Sopravvissuti all’apocalisse, i “Detroiters” incarnano l’antico spirito di sopravvivenza americano, matrice culturale fondativa del paese. Novelli cowboys, essi sentono di avere davanti a sè una nuova “wilderness” da occupare e sottomettere, tanto che, nelle loro osservazioni, Detroit diviene una nuova frontiera, incontaminata soglia di infinite potenzialità.
Eppure, da europei, la sensazione è che questa speranza tipicamente americana fatichi a trovare posto nello spazio urbano esibito da Florent Tillon. Dimensione cui si oppongono le immagini di repertorio le quali, rifacendosi ai passati fasti della città, nell’alternanza di passato e presente, drammaticamente evidenziano la debolezza di questo punto di vista. Il futuro non c’è, o meglio non può esserci se non si mette seriamente in discussione il sistema economico e sociale che ha condotto la città a questi risultati. La speranza non basta. Presentato al San Francisco International Film Festival 2011, l’interessante documentario di Tillon ci lascia sgomenti. Il futuro c’è, ma è sepolto sotto le macerie. È da lì che bisogna ripartire,  comprendendo davvero che cosa sia andato in frantumi. Lievemente e acutamente infatti Detroit wild city attraversa le rovine del sistema capitalistico americano e ne testimonia la profonda tragedia umana, insinuando – in un finale solo apparentemente debole – l’idea che, nel paese, qualcosa di profondamente sbagliato ci sia, al di là del sistema economico.

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