Mai abbassare la guardia!
È un film sulla memoria, J.Edgar. Sulla memoria di un uomo e, solo in minima parte, su quella di una nazione. Sulla memoria di un uomo-nazione, John Edgar Hoover, a capo dell’FBI per decenni, detentore di un potere enorme, inquietante.
Ossessionato dalla ricerca paranoica di un nemico interno, Hoover prima dà la caccia ai comunisti, poi ai gangster, infine se la prende con Martin Luther King, non capendo che, in realtà, è dal proprio senso di colpa che deve liberarsi.
La ricostruzione storica, grazie a collaboratori di prim’ordine, dal direttore della fotografia Tom Stern alla costumista Deborah Hopper, è sicuramente efficace, ma la regia di Eastwood, pulita e sapiente come sempre, sembra porsi volutamente, con naturalezza e dedizione, al servizio di uno straordinario, impressionante Di Caprio, che non esita a nascondere corpo e lineamenti dietro un trucco davvero pesante.
Tra le due dimensioni, quella privata e quella pubblica, Eastwood, sia pure senza morbosità, sembra quindi più interessato alla prima, sin dalla scelta del titolo, che esclude il cognome del protagonista e richiama la sequenza-chiave in cui Hoover, in un negozio di abbigliamento, così si firma per distinguersi da altri clienti omonimi. Proprio il desiderio di diventare qualcuno, di distinguersi appunto dalla massa, caratterizza infatti il personaggio di Hoover, sin dagli anni giovanili.
Il progetto autoriale di Eastwood di raccontare una storia alternativa, crepuscolare e anticonformista, degli Stati Uniti, attraverso la rivisitazione e l’aggiornamento dei generi classici – in questo caso il biopic, qui depurato da quel sentimentalismo che lo rende spesso indigesto – passa inevitabilmente in secondo piano rispetto alla vita del protagonista, raccontata dal punto di vista dello stesso Hoover. Perciò, ad eccezione della vicenda Lindbergh e del breve, ma significativo, faccia a faccia tra Bob Kennedy e Hoover – l’America buona e l’America cattiva a confronto? – il film, alternando il passato al presente con semplici stacchi di montaggio e un utilizzo non invadente della voce fuori campo, viaggia nei ricordi personali di Hoover, concedendosi, nella parte finale, perfino un accenno di love story.