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Shame

lunedì 16 Gennaio, 2012 | di Andrea Moschioni Fioretti
Shame
Speciale
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Routine
Steve McQueen torna a dirigere il prezzemolino Michael Fassbender, binomio perfetto: il regista britannico sa gestire i suoi attori e i loro corpi e il suo talento visivo è evidente, l’attore è uno delle “scoperte” degli ultimi anni e la sue interpretazioni sono impeccabili…ma qualcosa è andato storto in Shame.

Innanzitutto bisogna analizzare il fatto che non siamo davanti a un film erotico fine a se stesso, come alcuni hanno strombazzato in questi giorni, ma in Shame c’è molto di più; c’è una città, New York, sporca e cattiva che ingloba i suoi abitanti e non li aiuta ad elevarsi dalla massa, c’è la solitudine, la ricerca di un sentimento rinnegato, la malattia e alla fine, forse, il sesso. McQueen nel raccontarci la routine in cui sopravvive il protagonista (scopata, doccia, lavoro, masturbazione, video porno, scopata), lancia delle frecce che però non colgono il segno, è tutto accennato e limitato ma soprattutto spiegato con una storia in qualche modo moralista e furba. L’inizio della pellicola ci fa ben sperare, il personaggio di Fassbender, Brandon, è un parente stretto dei protagonisti dei libri di Bret Easton Ellis, uomo in carriera che nasconde un modo di vivere borderline e malato, ma la sfacciataggine iniziale con cui ci viene presentato e con cui si comporta è pian piano accantonata per essere sostituita da una estenuante disperazione generale. A partire dall’arrivo della sorella Sissy (l’ottima Carey Mulligan), Brandon muta il suo essere liberamente e “felicemente” erotomane in una condizione di revisione della propria vita e alla fine scade anche nel moralismo scandalizzandosi, in qualche modo, del rapporto sessuale che la sorella ha con un uomo sposato. Il personaggio perde in credibilità e coerenza, sarebbe stato più interessante mantenere il profilo “squilibrato” iniziale piuttosto che degenerare nello scontato pentimento e nella già vista “discesa agli inferi” di un uomo destinato a soccombere per la sua depravazione. Una New York così “poco New York” e la solitudine e l’apatia di Brandon potevano regalarci un altro film, la sceneggiatura è portata, purtroppo, a disegnarci un film furbo e quasi ricattatorio in cui la morale di fondo è che alla fine se si conduce una vita estrema prima o poi qualcosa arriverà a salvarci. Non è di grande novità nemmeno la ricerca eccessiva del piacere che pian piano volge nella perversione e nella patologia, non ci sono risvolti inesplorati e le scene di sesso prive di erotismo ma cariche di squallore nel finale precipitano nello sfrontato mescolarsi di piacere e dolore nel volto di Fassbender. Resta anche ignorato, o meglio, poco chiaro il rapporto che lega i due fratelli, fatto di sentimenti nascosti e per questo, quando riaffiorano, rabbiosi ed esasperati. Un film quindi che poteva essere altro e che si ricorderà anche per una New York, New York dolente e sofferta cantata dalla Mulligan e per il corpo di Fassbender invidiato da noi maschietti e desiderato dal genere femminile.

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