Un profondo amplesso lungo un film
Dopo la fame (Hunger) Steve McQueen arriva alla vergogna (Shame). Dopo la nudità “malata”, carnale e rivoluzionaria del prigioniero politico Bobby Sands, il dramma esistenziale dell’adone Brandon, dal corpo perfetto ma dall’interiorità malata; tutto si concentra sul corpo dell’eccezionale Michael Fassbender – Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Brandon è un uomo di successo, un vincente malato di sesso. Con le prostitute passa notti di fuoco unendosi in amplessi tanto necessari quanto violenti ma privi, paradossalmente, di qualsiasi trasporto, con i video porno trova sfogo alle sue passioni, con l’autoerotismo si “rigenera”, alla ricerca di un “orgasmo vitale” che non raggiunge mai; questa è la “vuota” discesa agli inferi di Shame in cui Brandon si dimena, si contorce e si masturba. La natura attoriale di Fassbender è tanto vitale ed esplosiva da riuscire ad interpretare due ruoli all’apparenza tanto diversi ma che in realtà rappresentano un dangerous method di autoanalisi e catarsi. Come il biopic di Sands racconta la prigionia “vera” tra fame e “sporco”, così Brandon si trascina tra corpi più o meno reali, tra coiti più o meno virtuali in una prigionia parossistica dei sensi. Mentre Bobby si scarnifica vivendo nei e dei propri ideali, facendosi Cristo morto, il sex addicted ricerca il piacere in ogni modo, con ogni pretesto, tanto Hunger è pienezza, ricchezza e autocompiacimento per la propria missione, quanto Shame è vuoto, mancanza, nevrosi. Il vuoto esistenziale in cui il protagonista vive permea tutto, dagli abiti che indossa, all’abitazione, all’espressione del suo volto. Il punto di non ritorno è l’arrivo della sorella Sissy, una meravigliosa Carey Mulligan, densa di tutta quella gamma di colori che a lui mancano. Lei lo scuote dal torpore, lo risveglia emotivamente, lo solleva, a poco a poco, da quella palude stigia in cui egli si lascia galleggiare: mentre Brandon è nodo emotivo, amplessi “dolorosi” nella loro meccanicità, Sissy è pura “luce”, dolore fisico vissuto a pieno. Lui è scatti di rabbia, umiliazione, corpo erculeo, sotto la doccia, squassato dal piacere in quella “prigione acquea” in cui ricerca godimento e pace, lei è canto trascinato, intriso dalle proprie lacrime, i tagli, pennellate “vitali” sul suo corpo/tela, che raccontano in maniera evidente il suo disagio. Shame non raggiunge forse la poesia, il lirismo, la forza emotiva di Hunger; anche stavolta Mcqueen ci consegna una storia umana, sincera e violenta, che non si risparmia e che non ci risparmia. Il tutto non si riduce al membro fremente di Fassbender, al suo dionisiaco corpo che anela ad un altro corpo, alle orge disperate, sperando in una momentanea “salvazione”, ma con quelle copule occasionali si scava nelle pieghe di quella concrezione umana tanto sola quanto infelice.