V per vendetta, G per guilty pleasure
“Questa non è una storia sul perdono” sussurra a mezza voce Emily Thorne, e in effetti la sua storia è piena di elementi imperdonabili. Talmente tanti e talmente lontani da ogni giustificazione da fare il giro e riscoprirsi imperdibili.
Partiamo dall’inizio. Cos’è Revenge? I responsabili del marketing, senza vergognarsi (e perché dovrebbero?) la definiscono una rilettura contemporanea di Il conte di Montecristo di Dumas. Sappiano o meno (i responsabili del marketing) che la serialità contemporanea e il romanzo d’appendice hanno più di una parentela. Quella che lega Revenge al Montecristo è apparentemente una vaga similitudine di trama: un gigantesco raggiro ai danni di un poveretto e successiva vendetta. Nello specifico, la Parigi post napoleonica è sostituita dagli Hamptons, luogo di villeggiatura dell’upper class newyorkese. Emily Thorne, una tizia sconosciuta ma bella, elegante, raffinata e disgustosamente ricca, vi affitta una casa a giugno, quando inizia la “stagione”, e inizia a frequentare l’alta società. Misteriosamente e contemporaneamente, tutti i riccastri che, anni addietro, avevano incastrato il buon David Clarke, accusandolo di un crimine orribile che non aveva commesso e mandandolo a morire in prigione, iniziano a cadere uno dopo l’altro come stolidi birilli. La verità – oltre che ovvia – è esplicitata fin dal pilot: Emily Thorne è Amanda Clarke, la figlia di David, e nella vita ha un solo scopo, vendicare il padre. No, sul serio: possiede addirittura un grande pennarello rosso con il quale tracciare una croce sulla foto dei propri nemici dopo averli sconfitti. Revenge è il piccolo caso seriale di quest’anno: inverosimile, recitato così così (malgrado la presenza, nel cast, di Madeleine Stowe), provvisto di tre location in croce e di incredibili green screen posticci, eppure dannatamente appassionante. Perché? Proprio perché Revenge non si pente del suo status di drammone a tinte forti e, sfrontatamente, non si fa mancare nulla. I personaggi strizzano molto forte gli occhi quando elucubrano machiavelliche ritorsioni o rimembrano il proprio losco passato. Offrono improbabili party di beneficenza ad ogni episodio e dietro le quinte si macchiano di torbidi crimini. Più di ogni altra cosa, nascondono (più o meno bene) sordidi segreti: amanti, ricatti, figli illegittimi, scambi di persona, tremende bugie. La peggiore di tutti è la protagonista Amanda/Emily, un automa senza sentimenti ridotto a mera (e gustosissima) funzione narrativa, cattiva, cattivissima, ma sempre scagionata dal fine che giustifica i mezzi, dall’occhio per occhio dente per dente. Forse c’entra anche il fatto che la serialità televisiva come la conosciamo oggi (forte, prolungata, potentemente orizzontale) nasce dall’ibridazione con la soap, a partire dalle fondamenta di Hill Street Blues – Giorno e Notte, passando per l’ineguagliata autorialità di Twin Peaks e pure per i giovincelli di Beverly Hills 90210. Si inizia così, seguendo le vicende personali (e, soprattutto, sentimentali) dei protagonisti, e si finisce per contagiare anche il più fiero dei procedurali (pensate a Dr. House, Bones o simili). Revenge lo sa, si appropria gioiosamente di tutto l’armamentario melodrammatico/soapoperistico e, invece di centellinarlo con parsimonia per centinaia di puntate, lo scaglia a mitraglietta contro lo spettatore. Egli non se lo aspetta e ne rimane incantato; e, una volta capito il gioco, si diverte come non mai e ne pretende ancora. Miracoli della serialità: al cinema sarebbe “solo” scult, in tv diventa pura dipendenza. Guilty pleasure, si diceva una volta: ma Revenge è così sfacciato ed eccessivo che, anche se colpevole, lo si perdona più che volentieri.
Revenge [id., USA 2011] IDEATORI Mike Kelley.
CAST Emily Van Camp, Gabriel Mann, Josh Bowman, Henry Czerny, Nick Wechsler, Madelein Stowe.
Soap Opera/Drammatico, durata 43 minuti (episodio), stagione 1.