Quando le hit musicali aiutano a capire la Storia
La comparsa di nuovi canali digitali in chiaro ha reso possibile l’ingresso di programmi decisamente interessanti che finora erano stati cancellati preventivamente o relegati in fasce orarie secondarie: è il caso di American Dreams, che in Italia era già stata trasmessa a singhiozzo dal 2005 e che ora finalmente occupa il palinsesto di Rai Premium con ben due appuntamenti giornalieri.
Una conquista meritata visto che nella serie confluiscono elementi di costume, storia contemporanea e musica che, shakerati sapientemente e scaltramente con quel tanto di autobiografismo e sentimentalismo che basta, la rendono uno spunto di riflessione oltre che una piacevole forma di intrattenimento: perché anche se di fiction si tratta evidentemente è pure uno spaccato piuttosto accurato della società americana che consente ai telespettatori anagraficamente più maturi di rivivere gli anni Sessanta e ai più giovani di osservare da vicino – magari per la prima volta – la realtà di un decennio che tanto ha influito sulla Storia globale. E se le tematiche coinvolte sono svariate e avvincenti, la galleria dei personaggi proposti non è da meno: un padre amorevole ma severo, preoccupato costantemente di assicurare un futuro cristallino alla famiglia (Jack); una moglie che si destreggia tra l’emancipazione femminile e le necessità familiari (Helen); il loro primogenito che eccelle nel football e che pur sognando di diventare astronauta è costretto a partire per il Vietnam (JJ); l’adolescente romantica decisa a cambiare il mondo che nel frattempo balla in tv nel celebre American Bandstand (Meg); la saputella ribelle che mette in questione tutto e tutti (Patty); il bimbo reso insicuro dai problemi motori causatigli dalla poliomielite (Will). E tanti altri personaggi che hanno la fortuna di conoscere una famiglia speciale come quella dei Pryor: Roxanne, Beth, e soprattutto Henry – il commesso che lavora per Jack – e suo figlio Sam, entrambi di origine afroamericana. Dietro all’apparente armonia di un mondo patinato e in technicolor, si percepiscono però le difficoltà che costellano le vite dei protagonisti. Degna di nota quindi la funzionale trovata di utilizzare la metafora – quasi pirandelliana – dello show musicale per far emergere le contraddizioni sociali di allora: sotto i solari sorrisi dei talentuosi artisti che si esibiscono c’è, ad esempio, anche l’amara quotidianità di quegli afromericani che, pur non essendovi ammessi, ispirano con la loro musica quelle hit. Peccato che da noi si sia scelto di mandare in onda gli episodi senza seguire un preciso ordine cronologico: così pur riuscendo a seguire il complessivo svolgimento delle vicende, ci si può confondere di fronte all’altalenante filo logico delle puntate trasmesse in modalità random. Ciononostante la serie riesce lo stesso a comunicare efficacemente: seppur ambientata nella Filadelfia di mezzo secolo fa, le riflessioni ispirate non restano circoscritte temporalmente e i rimandi con la nostra contemporaneità quindi non mancano.