L’arte rende liberi
Non è un caso che l’ultimo film di Paolo e Vittorio Taviani, Cesare deve morire, Orso d’Oro all’ultimo Festival di Berlino, affronti la difficile questione delle carceri italiane in tempi in cui spesso se ne discute tant’è che, recentemente, è stato annunciato un decreto svuota carceri.
Giusto o sbagliato che sia ai Taviani interessa più dimostrare come il carcere possa essere un luogo attivo e formativo per i detenuti. Infatti, il film, a metà fra il documentario e la fiction, narra in flashback la messa in scena dell’opera shakespeariana Giulio Cesare da parte di un gruppo di detenuti di massima sicurezza del carcere di Rebibbia.
Ciò che colpisce fin da subito è il rapporto che si crea fra realtà e finzione, marcate da un abile uso della fotografia. Nel lungo flashback viene utilizzato un bianco e nero che ben sottolinea il lavoro di “documentazione” di quanto avviene ma, allo stesso tempo, questo realismo è reso ambiguo dall’uso di un’illuminazione espressionistica coniugata agli elementi essenziali del profilmico. In questo modo i due autori rappresentano perfettamente l’innaturale condizione di prigionia dei detenuti: violenti contrasti di luce e buio, ombre che si proiettano su muri scarni, inferriate, grate, finestre e porte sbarrate rendono evidente la claustrofobia degli spazi in cui si trovano e l’impossibilità per loro di accedere al mondo esterno, mai mostrato chiaramente nel corso del film. E anche quando si prova in esterni i muri altissimi impediscono sia ai detenuti che allo spettatore di scrutare l’orizzonte. Inoltre, il contrasto luce/buio marca l’esistenza di questi uomini anonimi, lacerati da un oscuro passato e da una tremenda condizione di prigionia attuale. Il colore, invece, di cui domina la componente rossastra, accompagna la sequenza iniziale e quella finale in cui i detenuti debuttano sul palcoscenico, evidente il riferimento alla tragedia. Ma c’è un altro elemento significativo, a livello di contenuto, del rapporto realtà/finzione ovvero la continua sovrapposizione fra la vita carceraria e l’interpretazione dei personaggi shakespeariani, una sovrapposizione talmente forte che da un certo momento la realtà della prigionia e la finzione della messa in scena del Giulio Cesare non hanno più confini, diventano la stessa cosa, i detenuti dimostrano di aver compiuto un percorso formativo raggiungendo una propria libertà ideale. Emblematica, a proposito, la battuta finale: “Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata ‘na prigione”.
Con Cesare deve morire i Taviani affrontano con originalità e coraggio una questione di cruciale importanza e, contemporaneamente, dimostrano che esiste ancora un cinema italiano.