La verità esiste
Un fiume umano di caschi blu dal cuore nero, un magma livoroso che si riversa come un’orda di barbari eccitati sui corpi indifesi di esseri umani attoniti. E li inonda straziandoli nelle carni, nelle ossa, nella dignità.
L’adrenalina monta incontrollabile nel prosieguo di un assalto cieco e selvaggio. I manganelli fratturano gambe e braccia, spaccano nasi e labbra, rompono denti, fracassano crani in una macabra sinfonia di urla e lamenti animaleschi. Il buio corrosivo della rabbia – inspiegabile, insensata – si colora di rosso vivo al culmine di un delirio di onnipotenza repressiva. E’ uno “stupro” di massa.
I famigerati Tonfa in dotazione a centinaia di poliziotti-aguzzini, violano l’intimità di un raduno pacifico martoriando il diritto di libertà e di espressione democratica. Uomini e donne trasformati in carcasse di bestie agonizzanti, e lasciate lì a inalare il dolciastro del loro stesso sangue.
Si respira a fatica davanti alle immagini di Diaz. Don’t Clean Up This Blood. Gli occhi saturi di una violenza che, in una notte di Luglio 2001, si è rivelata in tutta la ferocia della sua pazzia. “Io, i miei, non li tengo più”: come a dire, che i conti a fine G8 vanno regolati. Nonostante il morto già messo a bilancio e la città di Genova trasformata in terreno di guerriglia urbana. Perché la politica non è cosa di tutti, è “cosa loro”, prerogativa assoluta del potere dominante. Per chi alza la testa e dissente, il verdetto è solo uno: mattanza. Così è avvenuto nell’inferno della scuola Diaz, con cani sciolti mandati a sfogare una frustrazione dalla carica distruttiva abominevole – la stessa che in ACAB. All Cops Are Bastards era ancora, volutamente, trattenuta nel fuori-campo. Lascia parlare le sue immagini, Daniele Vicari. In esse fonde apporti documentaristici (immagini di repertorio miste a spezzoni di riprese amatoriali unificate in una cornice polifonica di idiomi) e reiterazione espressiva della messa in scena, che porta la storia a dilatarsi riavvolgendosi su se stessa. Le decisioni interventiste prese in camera caritatis dai politicanti di turno; le aspettative di raccapricciante divertimento pregustate da poliziotti frementi; la sorpresa e lo spaesamento subito sostituiti dal terrore dei manifestanti pacifisti riuniti alla Diaz: sono i tre volti distinti, ma accostati, di un’azione di guerra il cui esito disastroso si presagisce nell’escalation di tensione ricreata da un uso non lineare del montaggio. Insiste sull’inabissamento dell’umanità della quale la Diaz è diventata simbolo, Daniele Vicari. E supporta il montaggio con una fotografia dominata dal chiaroscuro, pregna di zone d’ombra e sgranature che “sporcano” le immagini, specchi anneriti di una realtà avvolta nella morsa dilaniante della strage autorizzata.
Il tempo e lo spazio del post-Diaz sono dimensioni surreali di una città – di una nazione – ancora in sosta forzata nel territorio della violenza. Lo scempio – ai danni della democrazia e dei diritti inviolabili degli esseri umani – continua in un incubo che ha per nome “Bolzaneto”; e si amplifica nell’elargizione, repentina, di autoassolutorie versioni dei fatti. Bieche. Inutili. Perché non esiste un modo definitivo per lavare via quel sangue rappreso. “Via, maledetta macchia! Via, dico…”, grida Lady Macbeth. Ma la colpa impressa sulla coscienza – e per i fatti di Genova quella colpa è marchiata sulle coscienze delle Istituzioni – è un groviglio di rancori e astio che può sciogliersi solo nella forza dell’elaborazione narrativa, nel rito della visione condivisa. Per farsi, così, consapevolezza collettiva. Consapevolezza che quella notte qualcosa si oscurò nel rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini. La verità esiste: si ritrova negli atti processuali che Vicari ha usato come linee guida portanti della sua ricostruzione filmica. Ricercarla, approfondirla, guardarla, discuterla, è un diritto/dovere, civile e morale, di tutti noi. Film come Diaz – e, seppur in modo diverso, Romanzo di una strage di Giordana – hanno la capacità, lodevole e inaspettata, di ricordarcelo.