Necessario guardare
Diaz. Un secco nome che nel nostro presente significa sfiducia assoluta: il traumatico scoprirsi esposti e vulnerabili alla prevaricazione violenta di quello stesso Stato democratico che dovrebbe tutelarci.
A 11 anni dal G8 di Genova Diaz – Non pulire questo sangue rompe il tabù della rappresentazione di uno degli eventi più vergognosi della nostra storia recente.
Il regista Vicari e il produttore Procacci precisano che ogni scena è motivata e fondata su eventi documentati; d’altro canto, ogni ricostruzione è inevitabilmente frutto di scelte precise riguardo a ciò che si decide di rappresentare ed omettere, e come.
Diaz sceglie legittimamente di presentarsi come narrazione cinematografica forte, all’interno di precise costruzioni linguistiche e visive. Alle coordinate della Storia – luglio 2001, G8, Genoa Social Forum, no-global, Diaz, Bolzaneto, l’innominato Carlo Giuliani – Vicari predilige le storie: il giornalista, l’uomo d’affari, l’avvocato attivista, l’anarchica tedesca, il sindacalista anziano, necessari punti di riferimento cui ancorarsi nella narrazione, ognuno ad incarnare diversi corpi che l’inferno della Diaz l’hanno subito sulla propria pelle e riportato sulla carta degli atti processuali.
Alle sequenze del massacro si arriva con percorsi tortuosi che seguono la coralità del racconto; vi si giunge ancora, da diverse angolazioni possibili, la narrazione scandita da quella bottiglia – dettaglio verosimile amplificato nella sua importanza simbolica – che sarà il pretesto del Palazzo per giustificare, a priori, l’ingiustificabile. Si sottolinea lo scarto tra il compiersi dell’inimmaginabile all’interno e l’esterno quasi ignaro (l’avvocato attivista, gli altri accampamenti), lo spazio si triplica: la scuola, l’ospedale, la caserma-carcere, teatri del deliberato e violento annichilimento fisico e psicologico di quanti più esseri umani possibile. Dal risuonare del tonfa alle umiliazioni più insostenibili di Bolzaneto, il film costringe giustamente chi guarda all’esperienza del trauma, a considerare la sproporzione, la disumanità, la bruciante mancanza di ogni spiegazione. Eppure una spiegazione scellerata ci deve essere, tra le pieghe di un potere ramificato i cui ordini partono da una poltrona e arrivano al manganello mosso da un odio viscerale (che non può non essere anche personale, aspetto su cui il film manca di insistere).
Il film mostra inequivocabilmente il ricorso a falsificazioni e menzogne sistematiche da parte della Polizia di Stato, ma tralascia il collegamento tra i pestaggi e chi li ha orchestrati e ordinati più in alto. Tornati sul luogo del trauma, ora è necessario ripercorrere il filo invisibile tra quella bottiglia schiantata e il potere istituzionale di questo Paese, avvezzo a piegare i fatti e a distorcere le verità. Che con Diaz non si consideri in alcun modo esaurita l’elaborazione della memoria di quei giorni e di tutti i giorni di simili, anche se meno eclatanti, sopraffazioni.