Risvegli
A febbraio, nel 2009, in Italia, faceva più freddo del solito. Un flusso indistinto e assordante vomitava da televisioni e radio opinioni lapidarie e saccenti, e sembrava che, attorno al corpo da 17 anni senza vita di Eluana Englaro, ognuno avesse in tasca la propria insindacabile verità.
Come spesso accade, il dibattito acceso e sfinente è fumo negli occhi per movimenti gattopardeschi, è il corrispettivo dei brusii che si scambiano gli attori in teatro quando fingono di parlare senza dire niente.
Già, il teatro: sul palcoscenico di Marco Bellocchio, tutti recitano un personaggio, e lo fanno, con ostinazione, per tenersi interi. Lo svela Isabelle Huppert, grandissima attrice ritiratasi dalla carriera e dagli affetti, che non può fare a meno di cercarsi in ogni specchio della casa, aggrappata fino allo stremo al ruolo di martire religiosa che si è scelta, sgranando – più forte! Più forte! – il rosario di una fede in cui non crede. Lo dimostrano Maria e i suoi colleghi di fondamentalismo cattolico (apparsi anche al Lido, scivolati fuori schermo come in La rosa purpurea del Cairo, con i loro agghiaccianti e monolitici cartelli, per nulla interessati a vedere il film ma molto motivati a imporre come univoche le proprie convinzioni), intenti ad esibirsi a favor di telecamera in litanie notturne. E poi c’è la politica, un backstage di fantasmi spenti e grotteschi, smascherati cinicamente da uno psichiatra compiacente, che prescrive antidepressivi a una classe dirigente inetta, persa, anestetizzata. Chissà se recitano anche Rossa, tossicodipendente che anela al suicidio, o il medico Pallido, che l’acciuffa al volo, più volte, sul limite della morte. Marco Bellocchio racconta quella manciata di giorni della nostra storia recente impaginando un film corale – e non è solo il miglior modo di mantenere una giusta e delicata distanza: è l’affermazione perentoria (e politica) che il tema ci riguarda tutti, senza eccezione. E se è vero che, in qualcosa, la sua sceneggiatura inciampa (per esempio la storia d’amore fulminea tra Alba Rohrwacher e Michele Riondino), il suo cinema è, ancora una volta, drammaticamente necessario, implacabilmente ficcante. Vive di piccoli gesti anticlimatici, dettagli che disegnano il nostro essere vivi nella relazione con gli altri: così un gomito scostato per nervosismo, un confronto sordo tra padre e figlio, un abbraccio disperato alla fine di tutto sanno tracciare il confine tra chi è vivo e chi no. E, come già in Buongiorno, notte, per un istante sa regalarci il sogno di un’alternativa possibile, e migliore: la lettera di dimissioni preparata dal senatore Toni Servillo (che fa le prove, ancora una volta, proprio come in teatro) sta proprio sul punto di accadere, come la liberazione di Aldo Moro immaginata dalla brigatista nella pellicola del 2003. Tra le tante belle addormentate del film, c’è soprattutto l’Italia.
E quel che ci dice Bellocchio, con quest’opera profondamente morale e civile sul significato profondo di libertà, è che dormire o vegliare è una nostra scelta. Così come quella di lanciarci dentro il vuoto, o di afferrare, testardamente, disperatamente, continuamente, chi vuole darsi per vinto. Insieme alla fiducia in un altro cinema italiano, ci offre una possibilità, ci urla una consapevolezza. Ci ricorda che è compito nostro costruire un Paese libero, sopra e oltre le cortine di fumo.