Big damn hero
Incredibile a dirsi, una delle caratteristiche più spiazzanti di Django Unchained è la sua linearità. Tarantino ci ha abituato a proverbiali sceneggiature centrifughe, impalcature cronologicamente malleabili costruite sulla frammentazione del punto di vista, oppure prismi di prospettive spalmate su una coralità di personaggi.
Django Unchained è invece una storia semplice, agganciata all’arcinoto schema del “viaggio dell’eroe”, così come esplicita è la similitudine tra l’odissea di Django e l’epopea germanica di Sigfrido. E se è vero che il racconto procede, come sempre, attraverso la giustapposizione di sequenze quasi aneddotiche, è innegabile che la colonna narrativa portante sia una semplice traiettoria di vendetta rettilinea quanto un proiettile. Ancorata a funzioni narrative archetipiche (l’eroe, l’aiutante dell’eroe, l’antagonista, la damigella/premio, etc.), la vicenda si srotola inevitabile nei suoi 165 minuti, accende la sua miccia su titoli di testa leoniani (e, ancora prima, nel logo della Columbia “anticato”), si consuma paziente nella mutazione di Django da schiavo a bounty killer a vendicatore, esplode finalmente tra (prevedibili ma non per questo meno esaltanti) fuochi d’artificio purificatori. «Lo spaghetti western è il più cinematografico dei generi» dichiara il regista, con il solito sorriso felice da bimbo in pasticceria. Preannuncia un cortocircuito pericoloso, quello tra il più postmoderno dei generi e il più postmoderno degli autori, ma Tarantino incede dritto e impassibile come il suo eroe Django, grafico, elegante e bellissimo come sangue che inonda il cotone, strepitoso fin nei dettagli di una magistrale sinfonia di immagini e suoni (fate caso non solo alla solita incredibile soundtrack, ma anche alla coreografia sonora di certe sequenze), dirige interpreti straordinari in stato di grazia, accumula naturalmente citazioni e topoi del genere, ma alla fine, ovviamente, Django Unchained mica è (solo) uno spaghetti western (e neanche solo un revenge movie). Come sempre in Tarantino c’è una quantità di livelli di falsificazione tale – è evidente nella ricorrente insistenza su travestimenti, maschere, divise – da perdercisi come in un labirinto. Qua l’ironia scorre a fiumi più del sangue, si veleggia costantemente sul limite precario della farsa, contemporaneamente affondando in una materia storica incandescente, come già in Bastardi senza gloria. Allora l’autore spiegò che, sostanzialmente, aveva fatto un film di guerra su ebrei a caccia di nazisti perché gli sembrava «un’idea geniale che non aveva ancora sfruttato nessuno»: anche qui il presunto messaggio morale antischiavista e antirazzista (che c’è, checché se ne dica) è superato dall’intento, riuscito, di scatenare nel pubblico uno spettacolare (e, a tutt’oggi, incomparabile) appagamento catartico. Dire, insomma, che Django Unchained è “grande cinema” sembra una scontata banalità. Eppure.
Django Unchained [Id., USA 2012] REGIA Quentin Tarantino.
CAST Christoph Waltz, Jamie Foxx, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington.
SCENEGGIATURA Quentin Tarantino. FOTOGRAFIA Robert Richardson. MONTAGGIO Fred Raskin.
Western, durata 165 minuti.