SPECIALE ANIMAZIONE GIAPPONESE
Per la serie “film così non li fanno più”
Anno 2029. Gli impianti cibernetici sono all’ordine del giorno, e internet si è sviluppato esponenzialmente in pochi anni: l’unione dei due progressi tecnologici ha permesso la connessione alla rete direttamente dal cervello, tramite un cavo inserito in una cavità sulla nuca.
Ma questo è solo un “potenziamento” di base: sotto l’ala del governo, sezioni segrete composte da agenti pesantemente “migliorati” (corpo in titanio, riflessi, forza e sensi incrementati…) vengono usati per i lavori sporchi e le emergenze. O per i casi internazionali più ostici, come la cattura di un pericolosissimo cyberterrorista, il “Signore dei pupazzi”, in grado di penetrare nella mente delle persone inserendovi ricordi fasulli e manovrandoli poi come burattini. Il Maggiore Motoko Kusanagi della Sezione 9, cyborg praticamente perfetto, viene assegnata al caso, e più si avvicina al Signore dei pupazzi, più entra in crisi d’identità, riflettendo su cosa la renda umana, avendo infatti un corpo (un guscio, shell) quasi totalmente sintetico, e una personalità, dei ricordi, uno spirito (ghost, essenza vitale) che potrebbero tranquillamente esserle stati impiantati, e quindi non suoi. Ghost in the Shell è un caso rarissimo di eccezionale equilibrio tra azione spettacolare (di un realismo pazzesco) e riflessioni filosofiche sulla natura umana e sull’evoluzione della specie (simili a quelle sviluppate in Blade Runner e Akira). Dopo quasi vent’anni, il capolavoro di Mamoru Oshi, tratto dall’omonimo manga di Masamune Shirow, non ha perso una virgola in attualità e originalità, anzi è stato di spunto per tutta una produzione fantascientifica a venire (Matrix, ad esempio, abbonda di citazioni esplicite), nonché per tutta una serie di sequel, serie televisive e videogiochi che, per quanto interessanti, non riescono a equiparare l’incanto dell’opera cinematografica originale. Tra i primi a usare il digitale (per i dettagli, soprattutto), Ghost in the Shell raggiunge una bellezza grafica disarmante dall’animazione incredibilmente fluida, esaltata dalle musiche evocative di Kenji Kawai e da scelte registiche inconsuete, almeno per chi in Occidente è cresciuto a pane e Walt Disney e dell’animazione nipponica conosce solo Goldrake: sono molti i tempi “morti” dove non accade nulla, ma tutti al servizio dello sviluppo psicologico dei personaggi, amplificando per contrasto la violenza e il realismo delle scene d’azione (lo scontro finale su tutti). Meno ostico per i neofiti rispetto ad altri film d’animazione giapponesi (come Akira), Ghost in the Shell è un’opera d’arte magica, ipnotica, da vedere e rivedere, che ogni volta emoziona ed esalta. Fondamentale.
Ghost in the Shell [Kôkaku kidôtai, Giappone 1995] REGIA Mamoru Oshii.
SCENEGGIATURA Kazunozi Itô (dall’omonimo manga di Masamune Shirow). FOTOGRAFIA Hisao Shirai. MUSICHE Kenji Kawai.
Animazione/fantascienza, durata 83 minuti.