SPECIALE REMAKE MADE IN U.S.A.
L’arthouse film che uccide
Facciamo un esperimento mentale. Ipotizziamo di prendere un breve cortometraggio indipendente di tipo non narrativo e dai contenuti disturbanti e di mostrarlo, senza dare spiegazioni, a un’audience che ha poca familiarità col cinema d’autore. È facile immaginare una reazione di noia, presa di distanza e, in generale, rigetto.
Se, invece, lo stesso cortometraggio è contestualizzato all’interno di un meccanismo narrativo, ad esempio presentandolo come un film maledetto che uccide chi lo vede, ecco che il film non solo è accettato, ma diviene una delle sequenze cinematografiche più forti e citate dell’horror moderno. È ciò che è accaduto con The Ring, che nel lontano 2002 ha terrorizzato le audience di tutto il mondo adattando il successo di Hideo Nakata (Ringu, 1998) e dando inizio a una breve invasione di J-Horror e dei relativi remake sul mercato occidentale (The Grudge, Dark Water). Gli anonimi (per il pubblico americano) volti giapponesi sono sostituiti da una Naomi Watts in stato di grazia dopo Mulholland Drive e da Martin Henderson, coppia separata che ha generato l’imprescindibile bambino inquietante che parla coi fantasmi (David Dorfman). Lei è una giornalista in carriera che indaga sul presunto video killer che, stando alle dicerie, è la causa della morte di sua nipote. L’adattamento è fedele e segue la traccia della pellicola originale scena per scena, andando a intervenire sui particolari. Alcuni interventi sono molto efficaci (l’idea che l’anello – ring – sia l’ultimo barlume di luce che Samara ha visto dal pozzo dove è morta, è un’intuizione del remake), altri più frivoli (la versione americana fa uso di gore e di jump scare mentre quella giapponese punta maggiormente sulle atmosfere snervanti). Nonostante gli interventi, The Ring conserva gran parte della qualità disturbante del film originale ed è stato uno dei maggiori successi di pubblico nel genere horror. Oltre a una storia ben strutturata, la forza del film sta nelle sequenze del filmato maledetto, molto più lungo che nella versione giapponese, e nell’uso delle tecnologie come mezzo di diffusione dell’orrore. I VHS piratati sono lo strumento col quale la maledizione si propaga, il telefono permette al mostro di comunicare rimanendo nell’anonimato e il televisore diviene, in una scena giustamente celebre, il mezzo con cui la morte entra nelle nostre case. Sono, insomma, le intuizioni di Hideo Nakata a rendere efficace The Ring, ma c’era bisogno dei faccioni americani perché potessimo apprezzarle fuori dai festival e dai luoghi dedicati al cinema orientale.
The Ring [id., USA/Giappone 2002] REGIA Gore Verbinski.
CAST Naomi Watts, Martin Henderson, David Dorfman, Brian Cox, Jane Alexander.
SCENEGGIATURA Ehren Kruger. FOTOGRAFIA Bojan Bazelli. MUSICHE Hans Zimmer.
Horror, durata 115 minuti.